AL (NASO ILLUSTRATA) XXI --- XXXII |
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Poichè la
carità del natio logo |
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. Lettore: s'io dovessi scrivere una vera prefazione a questo libro, su l'uso retorico e di moda, mi uscirebbe forse di mano un così lungo sproloquio da vincere il libro stesso: perché? perché non potrei dispensarmi dal rimemorare i guai, le sofferenze e i contrasti patiti dacché mi venne la benedetta fregola d'impancarmi a raccapezzare, lucidando, le memorie del mio paese. II quadretto, a tinte malinconiche, a sfumature, a luci, a ombre dolorose e perplesse, confesso che mi à sedotto spietatamente delle volte più di millanta, e meglio che una strepitosa tantaferata di dottrine storiosofiche, pescate nell'odierno progresso della critica storica, da mettere qui innanzi, che Dio mi guardi, a sfoggio di superbia e di ostentazione letteraria. Ma il quadretto, dico, mi trarrebbe al prolisso; — e una prefazione vera dunque no, — è meglio lasciarla di là.Vedrò di tentarne un bozzettino, tanto per non lasciare affatto delusa la voglia che mi à provocato cosi vivamente. E, cominciando, ti dirò che tra i versi più amati del Giusti io ò avuti sempre quelli della Rassegnazione: Prima padron di casa in casa mia Poi cittadino nella mia città: — e mi rimembra che ruminandoli a quattordici anni, negli ozi silenziosi del mio Comune, io pensavo che non sarebbe una buona figura lo andare a far’ i conti a casa altrui, ignorando i propri; e che lo avere in testa tutti e ventiquattro i volumi del Cantù su la storia universa, senza le due o tre pagine storiche del proprio paese, fosse magari un villaggio, sarebbe una sconciatura da far ridere i polli. E lo stesso Cantù mi rincalzava siffatto argomento, perocché innanzi di volgersi a studiare cosi splendidamente il gran dramma dell’umanità, egli avea scritto la Storia di Como. Così pensando allora, — mi vidi come invasato dal dovere, dal desiderio di sapere le origini, le vicende, il passato del mio piccolo paese: i ruderi del suo castello, il bruno aspetto dei suoi santuari, i resti della sua cinta marziale, delle sue porte turrite; quell’avanzo vago, indefinito, di moresco dei suoi villaggi, mi gittavano addosso una smania indicibile... ma avevo quattordici anni, ed ero una mosca senza capo, più che adesso: che fare? — Chiesi a qualcuno un indizio di documenti, un po' di luce su le antiche memorie, un punto onde raccapezzarmi, e mi vennero dette e contate tante belle notizie, ma rotte, scalmanate, scapigliate, che poi ebbi a trovare per soprammercato appena appena possibili. Nessuno di proposito erasi imbizzarrito a scrivere sul mio tema prediletto; di che ebbi a convincermi che il mio compito era gravissimo. Più tardi mi furon dati taluni scritti, vecchi di un secolo; e ci perdei su gli occhi ansiosamente, così per trovare il mio punto di carriera; e che bel giorno fu quello! vidi, intravidi alcunché fra quegli sgorbi; quando un tale mi disse che in una casuccia, già abitata da un prete, di sotto a un letto, aveano a trovarsi taluni stracci o resti di un manoscritto prezioso del secolo XVII nel quale avrei potuto razzolare e argomentare di gran belle cose. Ed io subito per di là. Ricordo che m'incolse un buio pesto: alla casuccia menava una scala dirotta e fui nel cimento di lasciarci una gamba: entro, e salutato appena due pallide figure, me ne vado giù al letto: trovo un fastello di cartacce sudice, di vecchie giuliane, di breviari sdruciti, che della muffa non ne potevo più: trincio, rovistando, stralciando, metto in rovinio tutto quel pattume, e a pezzi e a bocconi mi vien di raggranellare a un tanto la volta il prezioso manoscritto. Mezzo sgobbato, strizzato, ebbro, cogli occhi imbambolati, — più di Cicerone quando ebbe a scoprire il sepolcro di Archimede, — lascio in asso le due pallide figure che strabiliavano ridendo a vedermi insudiciato a quel modo, e invasato di quelle storie muffite. A un cane quel mio strano atteggiamento diede sui nervi, e nel discendere la famosa scala mi venne dietro con una carezza sorda da farmene ricordare per un pezzo... ma che! allora non ci badai più che tanto. E venne la volta degli Archivi: Ti dirò della polvere e del pelime secolare aspirati? del brulichio di certi cosi da smiracolare un entomologo, a traverso a ogni pagina, a ogni marciume cartaceo, e che poi a tormi di dosso ci volle, e ci volle, trovandone sin'anco, dopo mesi, nelle saccucce del panciotto? Ti dirò dei miei poveri occhi lacrimosi, ebeti, stralunati di tanti sgorbi, geroglifici, sigle più o meno decifrabili e comprensibili? — Avevo bisogno di un po' d'aria, di un po' di luce, e ne trovai l'occasione. Messe insieme tutte quelle scritture non dovevo che tirarne il costrutto, donde sarebbe nata via via la tessera storica; però un paese non si studia in se e per se, ma al cospetto della nazione di cui fa parte: leggi, consuetudini, costumi, ordinamenti civili esso trae massimamente da quella: occorreva dunque un'ampia e preliminare. cognizione della storia siciliana, e quindi una biblioteca come l'avevo immaginata io, e di che difettava in certo modo il mio Comune. Lasciai dunque affannosamente questo nel dicembre 1864, e sulle gentili premure di un insigne religioso, (1) trassi in un certo paesello sedente su svelta collina. Oh! Dio! a quattordici anni chiudersi lontano lontano in un Convento di frati Capuccini a contemplarvi il silenzio e la morte, ricordo che mi strinse il cuore indicibilmente ! — Quel Convento ergevasi alto alto, solitario e romito, in aria purissima e in serena luce. Aveva una ricca biblioteca, ov'io andavo a rincattucciarmi tutto il giorno per fuggire le tetre arcate dei corridoi, e il severo aspetto dei crocicchi segnati da lugubri lampadari pendenti: quivi dimenticavo ogni cosa tuffandomi nel Surita, nel Di Blasi, nel Fazzello, nel Villabianca, nel Muscia, nel Mongitore, nel Pirri, nel Di Giovanni, nell'Amico e via via; e tra un volume e l'altro da una bella finestra a quando a quando mi fermavo a guardare le pensose colline del Fragalà, il solitario Monastero dei Basiliani, solcati talvolta da spessi fiocchi di nebbia; e, piena la mente dei fasti normanni, testè appresi, pareami fra quelle rugginose alture, fra quegli spicchi di monte, vedere le gigantesche sembianze di Ruggiero e di Roberto colle poderose soldatesche del norte agitarsi in battaglia... ah! ma intiepidita la fantasia, caduta la breve e calda illusione esclamavo col Prati: di voi non resta Che la memoria, e vagolanti spettri Nei pensier del poeta !… ------ (1) II Rev. ex Provinciale Antonino da Mirto, che oggi non è più.
Ma qui nuove fisime dolorose: quella lucerna caratteristica ch'io avevo a lato del letticciolo, quel panchetto di forma singolare, quel curioso braciere di creta, crescevano l'agitazione, l’instabilità del mio spirito — Una notte, mi sveglio di tratto come stralunato... mi rizzo a sentire: un coro di voci profonde, mormoranti, ferali, accompagnate dai tocchi monotoni di una terribile campana empie le arcate silenziose: Venite adoremus, jubilemus Deo salutari nostro... avverto di esser mezzanotte; — oh! Dio! guardo che la lucerna e in su lo spegnersi; e nella penombra, nell'agitazione mi par di vedere in fondo alla mia celletta proprio un frate riverso bocconi sul pavimento, colle mani distese distese, col capo avvallato nel cappuccio; stavo per tramortire dallo spavento... che negozio è questo? — Tento balzare dal letto e non posso... e penso al Grossi, alla sua Ildegonda, e credo tutte verità quelle uscite di poeta della famosa novella... quando lo scalpiccio lento di una pedata vicina mi torna gli spiriti; do col pugno nel muro, e sento che la porticciola si apre, ed ecco su la soglia apparire un Terzino tutto rannicchiato in cocola, con barba prolissa fluente dal cappuccio... — Deh! per carità, — gli dissi, — animate quella lucerna e dite... ditemi... die cosa e laggiù mai... ” — ne potei andare innanzi. Fra Michele ravvivò subito il lume, e... — Che à avuto disturbo del canto? — mi disse sorridendo, — e il nostro ufficio — si è su la mezzanotte! — No, no — risposi — toglietemi la... Oh che stupidaggine! — perdoni, — ò lasciato ier sera la mia tonaca lì distesa: — E dunque una tonaca? esclamai; proprio una tonaca? — Sicuro, e la mia... era bagnata, scusi della improntitudine: — Sia lodato il Cielo, dissi fra me, traendo un grosso respiro, — e grazie del lume; dopo di che Fra Michele, strisciando strisciando in sandali, chiuse la porticciola e lento lento dileguò. Rimasi scorrubbiato, scornato dell'infantile rimescolo con me stesso, e mi seppe un millennio il sopravvenire del giorno che spuntò al solito, piovoso, caliginoso, malinconico; nel quale, pensando ai miei lavori già forniti, al mio spirito al pollo pesto, alla mia lunga dimora, risolsi di abbandonare il Convento. Malgrado le insistenze dell'insigne religioso, tenni duro, e colla pioggia, la folgore ed il vento, scappai... ma giù nel Fitalia, ingrossato da furibonde correnti, mi vidi disperato della vita: la vettura ch'io montavo, benché poderosa e aitante, ondeggiò, vacillò, andò quasi a galla: le vicine montagne girarono allora dinanzi ai miei occhi, si confusero rovesciandosi, caddi in convulsione: — ma dopo? — dopo, salvo a miracolo, — apersi gli occhi riconfortandomi alla vista del mio paese! Le sofferenze, appena accennate, non mi tolsero già la simpatia che m'ispiravano i Conventi. La civiltà, e segnatamente in Italia, venne da quelle pie e laboriose istituzioni: senza i Monasteri e i Conventi, l'Europa sarebbe cominciata di qua forse il medioevo! — Con la mia testa piccina io non so ancora artisticamente dar ragione al legislatore italiano della completa distruzione che poi ne fece: che volete? ognuno a le sue bizzarie! Presi a compilare il mio lavoro; e l'ebbi fornito quasi di un fiato. L'uzzolo di pubblicarlo venne poi a solleticarmi; ma ei dovette dormire ancora per quattro anni. Nessuno credeva il povero me, — ostinato nel peccato — Dell'amor di patria', — e in compenso a tante ambasce intesi il fruscio di qualche frizzo... comprendo: ero un arfasatto, una rondine che vuol passare il mare prima del giorno di S. Benedetto; e il nostro mondaccio 1'ha avuta sempre quella inclinazione birbona di fischiare agli uccellini che pigliano il volo! — II disinganno però che n'ebbi fu tale, ch'io non volli più sapere di quel povero mio lavoro. Il quale, come ò detto, quattro anni dopo, si traforò, non so come, tra le mie carte, e con me, nel mare magno di Napoli. Una cospicua signora, a cui ebbi a narrare per incidente fra un sorbetto e una camelia, dinanzi ai colli di Posilipo, le avventure di quel poverino, pensò affettuosamente di dargli un po' di luce. La graziosa profferta, fatta così mollemente nel sorriso di quel Cielo, di quel mare, di quel paradiso, avvivata da due occhi maestosamente corvini, mi allettò, mi scosse in un modo che non ti so dire. Ricordo che dell'ebbrezza non capendo nei panni, proruppi sul pianoforte vicino, trascorrendo in un attimo la tastiera avorina colle note che vennero spontanee sotto le dita... le note del mio caro Marchetti:
Oh! dolce voluttà. Ripigliai dunque il mio lavoro, e leggendo e rileggendo, rammendando, raffazzonando e forbendo con nuovo bossolo e nuovi concieri, mi avvidi di averlo rifatto daccapo, con nuovi e preziosi documenti che mi furono inviati. Le idee e le forme di un’età, non sono più quelle di un'altra: l'individuo rifà se stesso sino a quarant'anni! — Tutto era in pronto, e il tipografo della nobile signora già si era occupato della stampa del mio libro, quando lo stabilimento tipografico, da cui sortiva un giornale cattolico, fu aggredito dalla Questura che pose in rotta, in conquasso e in rovinio ogni cosa: lettere, cassette, torchi, rulli, compositori, volarono spezzati, pestati, dispersi miserissimamente. Strabiliai a siffatta vista, pensando che razza di libertà era quella imposta in una forma cosi garbata e legale. Tant’è lo stabilimento si chiuse, nè fu aperto che in capo a sci mesi... e il mio libro? Potei appena raccapezzarne il manoscritto, e non intero, — e la stampa dileguo come un sogno primaverile. L’affettuosa gentildonna in quel lasso di sei mesi, colta da improvviso morbo, usciva di vita! Io mi sentivo agghiacciato. Riappiccicare nuovi progetti per continuare la stampa, mi parve allora intollerabile: un insulto addirittura per la nobile e cara estinta: riposi dunque il lavoro in fondo a un cassetto, mormorandovi su l'epicedio dell’oblio! Gli anni più belli passarono frattanto; la serietà della vita colla sua algebra noiosa, cominciò, mio malgrado, a temperare gli ardori del sangue, e nondimeno io non potevo dimenticarmi quel mio povero lavoro, che si abbelliva era di tante rimembranze dolorose ma care. Diversi miei concittadini, a cui son debitore di mille garbatezze, (1) mi si posero attorno e vollero a ogni modo ch'io lo rivedessi; e, a invogliarmente più vivamente, mi furon larghi di nuovi e più notevoli documenti. Un po’ intimorito, perplesso, trepidante scossi la polvere dell'infelice manoscritto... ma che! — io dovetti rifonderlo ancora daccapo: non ò detto che si muta perpetuamente? — E mi usci di mano un lavoro più lungo, pieno di vigilie, di penose lucubrazioni, di esosi travagli: sei mesi passarono camminando di quà di là, di su di giù, visitando terre, castelli, campagne, villaggi, abituri; e lo studio dei sepolcri finì poi coll'agitarmi indicibilmente: sentivo ancora che la mia fantasia, essa sola, non era stata tocca dall'algebra della nuova vita! — Che freddezza! che filosofia! — Contemplando fra gli altri il monumento del Conte Cibo, scrutandone attraverso i fori lo scheletro dal teschio piccino, il busto dalla manta cremisi a fuliginosi ricami, io l'ebbi meco non so per quante notti ritto, impassibile, ferale più che lo stesso feudalismo! Del mio nuovo libro, che così potevo chiamarlo, io lessi talune pagine a molti miei concittadini: tanto bastò perché il Consiglio Comunale nel settembre 1875 deliberasse di assumerne a spese del Municipio la stampa. Diascine! un Municipio si che può dirlo il padron di casa in casa mia\ — un Municipio poi non è una Contessa, una gentildonna che può morire; un Municipio è un'idea, e le idee non muoiono. Così pensavo io mettendo in sesto i quaderni del mio scritto; — ma, povero illuso, non avevo posto mente come in -------- (1) Rendo pubbliche lodi all'On. Comm.. Deputato Parisi, e ai signori Filippo Cangemi, Sindaco al 1875. Giacinto Cangemi, Antonino Milio, Nicolò Trassari, F. Milio Giardina, e al Rev. Arciprete G. Lo Sardo che mi furon larghi di vari incoraggiamenti nella compilazione del mio lavoro.
Italia il concetto della nuova libertà, o per colpa degli uomini, o del dogmatismo politico, o della morale sciupata, e che so io, gli era un po' vaporoso, ciarliero, bigotto; e che a furia di mitriare e levare a Cielo i Municipi, si venia ad assottigliarne la vitalità, la prosperità, la libertà, tutto! — Imporre tassa a cotesti Municipi, costringerli a spese sciocche e tiranne, e così smungerli, immiserirli, e spingerli al fallimento, pareva consentito dalla famosa libertà che dovea animarli; trattandosi poi di spese che interessavano la loro vita intima, il loro sviluppo intellettivo e materiale... oh! che! gli era invece addirittura un'offesa di quella permalosa libertà! — E cotesti ragionari, rincalzati da una legge la più tiberina c claudiana di parte destra, (14. giugno 1874), zeppa di grinzosi cavilli e di artifiziosi meandri, — giovarono a mandare nei ferri vecchi il voto del Consiglio Comunale. Un Sotto-prefetto, il Cav. Miceli, cui non difettava l'ingegno, l’integrità, lo studio; ma proconsole bigallonato, stitico, succiato nei giudizi}, con tanto di manica ingangherellata ai polsi, trattandosi di leggi restrittive; per soprammercato uggioso, malinconico, misantropo, — ne compiva il sacrifizio; e, ahime! non ci fu verso ch'ei si sgusciasse dalle sue lumacherie. E mostravasi dolente del caso, e di doverla pensare a quel modo... ma! — tenne saldo, e il voto Consiliare svanì. Un Assessore veniagli spedito a scuoterlo(3), ma tutte baie... E la libertà dei Comuni? — Commedie! — avrebbe detto Pio VII. — Si pensò di mandare me a quel funzionario; risposi di aver troppo nella testa il Benvenuto Cellini per evitare una corbelleria... oh! vedete se gli era caso, dopo tutto quello che avevo patito e tollerato sin la! —
(3) Sig. Calcedonio Magri, oggi Sindaco.
In conclusione, il mio lavoro tornò nel cassetto; e avevo giurato... ma giuramenti siffatti mi san di puntello alle fabbriche, — segno certo che minacciano rovina; sicché oggi, dopo altri sei anni, è dovuto revocar tutto. Il Municipio — debbo dirlo — a voluto patriotticamente ripigliar la partita; à giocato ed à vinto; — però il successo non mi à scosso come in quegli anni beati! — Lettore, adesso il mio bozzetto è finito, malgrado t'abbia detto l'un mille di quanto avrei potuto; e non mi avanza che una sola parola sul costrutto di questo lavoro. L'ò diviso in quattro libri, nei quali ò trattato delle vicende civili, delle scienze e delle lettere, e infine dei monumenti. Riandandolo testè, mi è parso completo dal lato dei fatti e dei documenti; proprio: ei non difetta di nulla. In quanto ad altro vorrei dirti una parola nell'orecchio, ma oramai piglialo com'è e con un po' di tolleranza faremo carità insieme. Ai lettori forestieri, se pur ne avrò, raccomando di non dar giudizi se non leggendolo tutto, ricordandosi che chi scriveva fece ogni cosa per tenere il cuore al suo posto; che se la eloquenza dei fatti, di taluni segnatamente, lo trasse talvolta fuori di carreggiata, vogliano assolverlo in grazia dell'amore. 0’ giudicato l’antichità coi documenti alla mano, i contemporanei con parsimonia, e scrupoloso del vero non mi son fatto imporre da ombre, ma dalla sola realtà. Ai miei concittadini dirò: eccovi il libro che potrebbe più dilettarvi. Se i memorandi esempi del passato sono scuola di miglioramento, di nobile progresso, esso ve ne darà tanti da soddisfare il vostro orgoglio municipale, da farvi amare più vivamente la patria vostra, allettandovi a illustrarla nel triplice arringo del vero, del buono e del bello. Al suo autore nel resto non pensate; perocché non à già scritto per boria di fama; egli nulla pretende da questo lato; meno che il vostro affettuoso ricordo.
Carlo Incudine (NASO ILLUSTRATA) XXI --- XXXII |
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LIBRO PRIMO --- LIBRO SECONDO --- LIBRO TERZO --- LIBRO QUARTO (quattro libri)
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SOMMARIO: (NASO ILLUSTRATA) da pag. 1 a pag. 42 | ||||
1.
DESCRIZIONE DI NASO IN GENERALE.
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13. S. CONONE
NAVACITA.---
23.GLI ARAGONA. I TURCHI IN NASO. VITTORIE NASITANE. I PIRATI DI BISERTA. LA SPIAGGIA DI S. GREGORIO.--- |
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Naso, in Val Demone, all’Ovest da Messina, dalla quale dista 60 miglia, si leva e si posa su di un alto ed isolato monte (m.497), poco discosta dal fiune cui dà il nome, e che in antico appellarono Timeto (1). A vedere è un imponente fabbricato, tirato là alla buona, senza simmetria artistica, senza pretensioni e soggetto a tutti i pendii e gli avvallamenti naturali del maestoso monte. Sito, a dir vero, sin’oggi disagevole al commercio per le vie erte, aspre e rocciose, non temperate mai dall’arte e lasciate come vennero da natura; ma facilissime a ridurre piane, praticabili e sicure, a mutare in sorgenti di civiltà e floridezza quandochessia. Sito però Vaghissimo, e ricco d’ogni più cara dote naturale: aria pura, acque limpide, ampio orizzonte, ciel sereno, salutifero, incantevole, atto a ispirare dolci e teneri sentimenti, ad animare svelte e feraci intelligenze; perocchè sott’esso la vitalità circola e preme potente sui vasi, e si avvia d’un bianco rosato, tipico dell’individuo, che traspare dolcissimo dalle fisionomie: onde di belle e vezzose ebber fama le donne nasitane (2). Vedute ha poi Naso da ogni parte varie, dilettevoli, commoventi. Da levante si schierano in prospetto, e come in iscena, burroni, precipizi, grotte, Municipi (Piraino, Ficarra, Martini, Sinagra), ed immense foreste che vanno a perdersi con l’Etna, dalla vetta fumante e ammantata di nevi eterne, - oltre al maestoso fiume che, dalla scaturiggine in sino al mare, tutta mostra la sua onda rapida e luccicante. Da mezzogiorno floridi colli, romite casupole, piccole pianure, montagne interrotte da strade e stradette ripide, acclivi, piane e ricoperte da folti castagneti. A tramontana il mare e talune delle Eolie che vi pescano per entro. E da ponente estese pianure, edicole campestri, il Convento dei Cappuccini e i colli di S. Giacomo disgiunti da Naso per una valle sulla quale, diritto in parte e diviso in due ale, sorge il Borgo Bazia, di cui avremo materia di sovente ragionare in appresso. Questi colli di S. Giacomo offrono argomento di gravi riflessioni al naturalista, e in ogni tempo delizia e meraviglia ai forestieri. Sono essi a strati calcari-conchigliari, con misione continua creto-argillosa, e sparsi a vari depositi di soprapponimento di carattere zoologico, e avanzi di concrezioni pietrose. Contemporaneamente a un grande accrescimento di vita marina, contengono gusci, conchiglie, patelle, cellepori, e vestigi organici mirabilissimi. Non saprebbesi precisar nettamente la loro età geognostica: cause varie sarebbero le pressioni violente delle forze marine nei passati periodi; l'azionc vulcanica inducente un lavorio continuo di affinità e di coesione, di composizione e di coesione, di composizione e decomposizione e via via. Ma questo è da lasciare ai naturalisti. A noi basterà quel tanto già detto, e andiamo innanzi. E’ Naso diviso in quattro sezioni o quartieri principali, che piglian nome dalle Chiese rispettive; cosi, quella del SS. Salvatore e l'altra di S. Cono. Ha dei buoni monumenti, taluni dei quali bellissimi e degni di ammirazione, strade larghe, poco agevoli, non selciate; spaziosi piani; porte antiche, e ruderi che fan fede esser ella un tempo da altissime mura difesa. Ma notevole in sommo, e sovratutto, è il suo territorio. Chiuso in un giro di circa 24 miglia, diviso in numerose e popolatissme contrade, avente a confini naturali due grandi versanti, il Timeto, oggi Naso, ad Est, e il Fitalia, oggi Sappulla, al Sud: è perenne e incontestabile esempio di naturali bellezze, di progresso agricolo e industriale, e dà a vedere che a ragione Naso venne appellata dal Perdicaro: popolata e ricca: dal Di Giovanni: ragguardevolissima: dal Cimarelli Marchese di Villabianca: antica, ragguardevole e popolata. Però, il difetto di viabilità, che sin'oggi si è lamentato (3), le sviluppate malattie dei bachi da seta, e varie altre contingenze, avean ridotto Naso in un ciclo sensibile di decadenza. Abbiamo fede nondimeno che essa risorgerà; il deve e può; perochè il regresso non è la legge costante degl'individui; in quella ch'è stasi e morte, è eziandio incitamento vivissimo e inevitabile al progresso. Ma di questo torneremo a parlarne, piu diffusamente, più nettamente forse: ora di Naso è mestieri toccare gli antichi tempi, le prime vicissitudini.
(1) E’ quistione fra gli storici siciliani se con
questo nome di
Timeto
chiamavasi il fiume vicino Patti o quello che di presente denominasi
di Naso. Il Cluverio pende per quest’ultimo. Il Fazello scrisse:
segue la foce del fiume Naso, ch’è nome moderno; onde è a credere
che in antico s’avesse altro nome, e quel di Timeto senza più.
L’illustre Ferrara è eziando di simil parere scrivendo:
Pare che debba essere il Timeto, che Tomomeo segna fra Agatirno e
Tindari.
(Stor. Gen. Di Sic.
Vol. 7, pag. 228). Il Maurolico ( in Pref. ad Sic. Rer. Comp:)
riprendendo il Fazello, che chiamò il Patrono di Naso Cono e non
Conone, scrive: “Nasi
fluvium Thymetum esse; Conum debere dici Cononem”. (3) V. Lib: IV, par. §1 |
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Come dei popoli, delle nazioni, cosi delle città suole spesso l'origine, la derivazione apprestarsi alle indagini più intime o indistinta e impigliata, o sparsa di reminiscenze spezzate, difficili ad accozzare, a rimettere a un segno che abbia modo e ragione. Cosi avviene di Naso. La sua fondazione è stata argomento di quistioni fra storici e cronisti. Alcuni se ne passano; altri ne han voluto parlare ad ogni costo; e ciuffole e bisticci ne son venuti su da ogni parte: noi diremo quel che ci è parso più uniforme, più vero; chè 1'imaginare a insonne non è il minor difetto in cose storiche. Nei secoli pria l'era cristiana, quando Sicilia veniva affitta da barbare incursioni, là su quel monte ove oggi è Naso, levavasi un villaggio costruito a mo’ di quei tempi; tutto capanne a quanto pare, e in mezzo a folti boschi da ogni lato chiusi. Asilo era incolto e silvestro di gente raccogliticcia, miseranda, pellegrina, dedita alla pastorizia, fors'anco a Delitti. Venne detto Neso (1). probabilmente da (Nesos) isolato, diviso, pel suo sito indipendente e solitario; nome indi variato, come, come osserveremo, dai Normanni. Quell’altura ripida, dirotta però, che si lascia da ogni parte, secondo il Ferrara (2) “profonde valli nelle quali colano fiumi ” parve dappoi stanza sicura e certa difesa a popoli culti ma minacciati e sbigottiti. Sicché quel borgo poverissimo, nel giro di pochi secoli, più non serbò tracce di sua forma primiera. Caddero i boschi, che il serravano con perpetua notte, sotto la scure del Latino e del Normanno; sparirono le rozze capanne, i villerecci abituri; e via via s’udì sovr'esso la tromba guerriera, il gemito del vinto, il fremito della vittoria e direm come. -------- (1) Erra seriemente il DRAGO DOLCETTA (Vit. E Glor. Di S. Cono) asserendo che Neso è una delle tante inflessioni della parola Naso. Le inflessioni sono fatte dal popolo è vero, ma determinate da avvenimenti. Se negli antichissimi storici si legge Nesum, se nei meno antichi Nassus o Naxos alla greca, e nei moderni Nasus, ciò non è senza una ragione: è conseguenza della successione dei popoli e delle vicende, che noi fedelmente veniamo esponendo. Su l’esistenza poi del piccolo Neso consulta APRILE, Cron. Di Sicilia, Lib. 2°, par. 2^; MASSA, op. cit., v. Neso; OTTAVIO GAETANO, Vit. Di S. Cono, n. 3°; AREZIO, Rerum Sic. Comp.. In indice. Il Maurolico nettamente dice: Nasus vel Nesos a Nisea regione sive a Nesidio opido antico (Rerum Sic. Ib.). (2) Stor.sud. Vol.7. Pag. 325. |
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Essendo ancor Troja in pedi, Eolo, il famoso Dio dei venti, figliuol d’Ippota della stirpe degli Eraclidi, s’impadronì di Sicilia. Potentissimo quindi in tutta l'isola, sposò Telepora figlia di Liparo, la quale portogli in dote quella catena d'isole a settentrione della Sicilia, e che da lui pigliaron nome di Eolie. Ebbe dal suo connubio dodici figli, sei maschi e sei femine: i maschi furono Ferremone, Androcleo, Locasto, Astriotto, Suto ed Agatirsi o Agatirio; e le femine Istefesia, Aristacrea, Dia, Peribea, Itta ed Eole. Pervenuto a gran vecchiezza, e sentendosi a morte vicino, divise l'impero ai suoi figli, dando a Locasto Reggio, ad Astriotto le Eolie, a Suto Leontini; e tutta la riviera sicana bagnata dal Tirreno ed opposta alle Eolie, ad Agatirsi, del quale solamente qui parleremo.
A cinque miglia da Naso, verso tramontana, di contro le sudette Eolie, dalle quali è a circa 30 miglia, si allunga in mare il maestoso Capo di Orlando(1), celebre negli antichi e moderni geografi. Sta al lembo estremo di spaziosa pianura, ha forma di un cono retto del quale l'altezza supera il diametro della base, onde è di alpestre salita; su la cima vi siedeva a cavaliere un antichissimo castello, oggidì in rovina, che dovea essere pentagonale, e dentro evvi. un tempietto dedicato a N.S. dei Cieli, che nelle tempeste invocano i naviganti come la Stella del mare e porto di salute. Una strettissima salita, che parte dalla strada, conduce in alto da oriente dove i lati del cono sono verticali al mare; fra oriente e mezzogiorno evvi picciola cala(2). Ad ovest sorge il Borgo cui dà il nome; e al sud si affianca al monte e ai piani di S. Martino, che s'intrecciano allo Scaro di S. Gregorio, intorno al quale colano sorgenti di limpide acque(3). Su queste felici regioni adunque, l'anno a.C. 1218, venne Agatirsi a stabilir la sede dell'impero, inalzandovi maestosa città, che da lui si nomò Agatirside, Agatirna, Agatirsa, Agatirsi, Agatirno, Agatirio o Agatirso, come variamente dagli antichi storici si appella. Il tempo che traveste e sembianze e memorie, un po' di desidia negli storici medesimi, ci han sgraziatamente impedito di porre a un certo lume i fatti di questa insigne città. Di essa avremmo voluto discorrere c lungamente; parlare di sue vicende, noverare i suoi monumenti, ma poco o nulla vi possiamo. Da Diodoro (4), da Stefano, da Strabone, si sa ch‘ell'era greca; e che quando Grecia spediva in Sicilia Teocle e i Calcidesi, Archia e i Corinti, Antifemo e i Rodi, Entimo e i Cretesi, — Agatirside si giovò di quella civiltà, godette di quella cultura, e rivaleggiò con Tindari, con Alunzio, con Alesa, che teneva circonvicine, splendidissime città anch'esse: Avea comodo porto, la cala di oggidì arenata e sepolta, facile a ridurre come in passato, desiderio eterno dei nasitani, — avea uno stabilimento di bagni, probabilmente nella parte che oggidì dicon Bagnoli, una piazza decorata di bellissima fonte, e l'acqua vi fluiva copiosa per un acquedotto, sola reliquia che tuttodì si vede, — lunghissimo e internato fra monti insino a S. Domenica, contrada in che avea capo e sorgente. Che fosse poi città forte e popolosa, si argomenta da ciò: che dopo la disfatta degli agrigentini — e Livio che il narra — il console Levino, da Agatirside, dove s'eran ridotti, porto seco 4000 uomini; società composta di ladri, esuli, impoveriti, di che quel console, bravo davvero, popolò la campagna Bruzia. Che fosse infine capo di una signoria e per la origine e residenza dei re un giorno onorevole, si legge in tutti gli storici testè enunciati. Il tempo e le cagioni di sua ruina, stanno anch'essi nel dominio dell'opinione. Pietro Diacono sostiene ch'ella fu vittima di rabbia saracina, e già prima i Goti l'avean desolata e immiserita. Essa caduta, gran parte di sua gente venne ad abitare il piccolo Neso, portandovi usi, tendenze e costumi(5). Il Borgo, che oggidì si vede e che ha nome dal Capo, di che innanzi abbiam detto, probabilmente è uno storico avanzo della infelice città. Come borgo appare negli scrittori verso i tempi di Federico II (6), allargatosi col tempo mercè la cooperazione degli abitanti di Naso, che lo hanno prescelto quasi luogo di delizia e di commercio. -.----- (1) V, Lib., par, §26. (2) FERRARA, op. cit. (3) V. Lib. VI, FAZELLO, Dec. I^. Lib. IX, Vap. V; (4) FERRARA, ibid. e l’Appendice Generale, alle iscrizioni, in quest’opera. Iscr. LVI. (5) In un manoscritto secentista del Dott. Girolamo Lanza nasitano, dal titolo Fioretti dell’antichità Naso (V. Lib. II di ques. Sotor. Par. 4) si leggono le seguenti parole: “Nota che in queste terre di S. Martinu c’era un casali (?) nominato Agatirso; et perché nelli belli civili non ci potianu habitari sin di vinniru a Naso”. (6) FAZELLO, Dec. II, lib. IX, Cap.V. |
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Contemporanea ad Agatirside, sulle rive del Timeto o Naso, e segnatamente per quella contrada che s'addimanda oggidì S. Antonino, fioriva Nasida o Naxida(1); città eretta da una colonia di Nassensi, poi che la greca Naxo cadde e ruinò. Avea anch'essa monumenti, ricchezza, signoria, ma infelicissima condizione topografica. Tempi eran quelli da fuggire ai monti, e di questi ai piu ripidi e paurosi. Essa invece, soggetta a due sistemi di altissime montagne, posata in. una valle solinga, non potea durare in pace, crescere in sicurezza; ne vi durò, ne crebbe. Assalita continuamente dai Saraceni, oppose resistenza, ma invano; i suoi popoli spazientiti, sgomenti, lasciaron la infine, e strinser nuova fede cogli Agatiri, gia abitanti del Neso (Ann. 820 di G.C.). Tal sorte toccò eziandio a quelli del S. Giovercio o Tricaso, di S. Anna, Malò e più tardi a quelli del Fitalia. Eran questi dei villaggi sparsi per le campagne (2): il primo nella contrada Munidari a 3 miglia da Naso (3);, il secondo un po' più in su nella contrada di simil nome; il terzo tuttodì esistente, piccola riunione di case di men che 90 persone; e il quarto a 5 miglia da Naso, su quella collina che sta sul confluente dei due fiumi Tortorici e Galati formanti insieme il moderno Sappulla(4). -------- (1)FAZELLO, ibid. pag. 289; ferrario. Lexi. Top. Di Sic. (2) nel citato ms.° di Lanza si gegge: “Nel territorio di Naso ci erano molti casali, poi tutti s’unero e fecero la terra grande”. (3) Di questo villaggio si vedevano alcune pareti ruinose sino al 1617, quando vi furono trovate sepolture d’uomini con dentro zecchine d’oro, allavaluta di Lire 3,40.
LANZA, ibid.; DRAGO DOLCETTA,
Vit. Id., pag.5. |
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§ 6. Primi popoli abitatori di Naso.
Tutti questi popoli, differenti di origine, di tradizioni, di costumi, stretti in comunanza civile per cagion comune d'infortunio, vennero dunque sul Neso. Quivi invigorirono, condensarono le forze, levaron case notevoli, l’asperità del sito temprarono, e sicuri per esso da ogni assalto, crebbero in forza e floridezza via via. Molti anni poi vi vennero altri popoli, altre civiltà: prima Latini, indi Saraceni ed anco Ebrei. Di Ebrei non vollero saperne i Nesidi dapprincipio: la religione diversa facea quella gente odiosa, insociabile; vi furon lotte e contrasti, e si venne a patti. Gli Ebrei chiesero abitare lontani dal circuito della città; si esitò alquanto; s'indugiò; ma insistenti eran quelli e finalmente si cesse(1). ------- (1) DI GIOVANNI, Ebraismo in Sicilia, Vol. I°, Part. 2^, n. 4 e seg.; PIRRI in not. Eccl. Pact. Sipl. Ad ann. 1094, PICCOLO, Della Vita, Virtù e Miracoli di S. Conone, ms.°. |
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Allora, a pochi passi da Neso, in quella valle che s'apre ai piè del San Giacomo, s'adunarono essi e quietarono. Vi costruirono ottime abitazioni, che tutte insieme davan sernbianza di graziosa borgata. Sovr'essa signoreggiava da un colle ad Ovest la Sinagoga; colle che tuttodì conserva il nome di monte degli Ebrei. Gli usi però di costoro, le lor costumanze religiose, e lo allargarsi sensibilmente e presto, spiacque e svegliò l'odio ai Nesidi. Si corse alle armi, si tornò alle lotte, e furono accanite, temibili assai più. Gli Ebrei, pochi di numero, avviliti dall'eterno anatema, dovettero sgombrare e fuggire(1). Fu quindi atterrata la Sinagoga, e abitato il borgo da famiglie di figli e tintori; e sin'anco il nome col tempo, come ora diremo, involontariamente, insensibilmente, venne mutandosi, sparì. In capo alla strada che conduce alla contrada S. Anna, verso Levante, fu eretto un Monastero di ordine cisterziese, e taluni il vogliono Bernardino, dedicate a S. Domenica; stanza di monaci greci sotto la regola di S. Basilio(2^). Ebbe le terre del borgo censite, e fu un primo passo perché il Borgo, già degli Ebrei, si appellasse da li a poi: Abazia Cisterziese. Rovinato il Monastero, il borgo si disse solamente: Abazia, e fu un secondo passo; abbreviando finalmente e definitivamente il chiamarono Bazia, e fu l'ultimo passo(3). -------- (1) Non tutti però, avvengnacchè talune famiglie vi rimasero. Difatti verso il 1630 nelle vicinanze di quella collina, ov’erano il Ghetto e la Sinagoga, avevano abitazione gli Alibertini e i Romanini, gentiluomini Ebrei; questi ultimi battezzaronsi a Messina, e forse a questo patto furono in Naso ricevuti. Degli Alibertini fu popolarissimo Filippo Gioan Cola Aliberto, nato da lavandaia nasitana e cristiana ch’erasi giaciuta con uno di quelli. Suonator di professione, venia chiamato ad allegrar le feste e le nozze. La bestemmia però il seduceva; nella pubblica piazza di S. Michele, vennegli posto in bocca un ferro enorme detto badaglio; pena che allora davasi ai bestemmiatori (LANZA, ms.°). (2) V. Lib. IV, par. 21. (3) Che Naso abbia avuto l’origine da noi sostenuta, oltre degli autori, testè citati, lo affermano nettamente: il Gaetano (Vit. Ined. Di S. Cono) dicendo: Nesum opidum on edito colle situm supra vetus Agatyrsum ex antiquae Naside reliquiis, ecc.; una bella iscrizione del secolo XVIII (V. App.. Gen.Lib. IV, Iscriz. LV) in cui si legge: Nassensem Urbem ab reliquis proximarum olim, Neseidos Agatirneque cohortam, ecc.; un manoscritto dell’Arciprete Antonino Piccolo, composto in proposito della lite Madre Chiesa e S. Pietro (V. Lib. IV, § 9), in cui è detto: “Naso è terra su di un monte, ove fu fabbricata dalla gente di Nasida, città stata su la sinistra del più vicin fiume, alcuni dei cui cittadini non potendo ormai più soffrire il duro gioco dei Saracini, e poiché avevano perduto la roba, non volendo perdere la divina fede, si consigliarono portarsi sul detto monte che alpestre era e difficile a salirsi dai nemici; ivi piantarono la loro abitazione, fabbricandovi case, castello e Chiesa. Su tal esempio più altri pian piano accorsero a quel luogo di asilo”.Lo stesso confermano parecchi altri storici e cronisti, che ci dispensano per brevità nominare. |
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Ai tempi, di che parliamo, i Saraceni sbucati dall'Africa, corso l'Egeo, contristate le Cicladi, atterrato il colosso di Rodi, calarono in Sicilia subitamente. Di lor rapine e vendette e distruzioni per tutta l'isola s'occupano storici e molto: noi diremo ciò che al presente lavoro s'avviene. In Neso essi vennero in quegli anni, e tuttavia duran memorie del loro regno. Distrussero parecchi monumenti cristiani, fra quali il Monastero Cisterziese, di che sopra abhiam detto, cercarono a morte quei monaci, gl'inseguirono, gli perseguitarono, ma invano. Lor sede elessero fuori le mura della città, nelle vicine campagne, ove scavaron grotte nel vivo masso profondissime, a mo' di vaste abitazioni sotterranee; grotte che ancora sono lì a destar meraviglia nelle contrade Valentino e Colliri. Dicesi facesser commercio di pietra e segnatamente nella campagna, che ancor 'oggi si addimanda Valle dei Saraceni: notizia vaga pero è questa, e venutasi infievolendo oramai per la lontana tradizione. Quei di Neso soffriron molto del lor rigore, di quella inconsulta selvatichezza che spigneali a ruina; però, come gli altri popoli dell'isola, furono anch'essi dai Normanni liberati e redenti. |
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poi quelle di Leone IX, e che, ammirati da questo Pontefice, ebber poi la Puglia e la Sicilia. In Sicilia trovarono i Saraceni. A sbaragliarli e cacciarneli furon disposti da Maniace capitano greco; ma trionfarono compiutamente con Ruggiero, l'ultimo degli Altavilla. Ruggiero piombò in Reggio, vinse Messina, sconfisse i Saraceni a Enna, poi a Troina, a Geraci, a Cerami, a Palermo, e tutta I'lsola via via ridusse e incatenò al suo scettro terribile ma giusto. Vuolsi, e un antico diploma dicesi facesse fede(1), che l'ultima lotta con la gente d‘Ismail avvenisse su quel pendio di monti, su quelle alture dove oggidì siede il piccolo Frazzanò. Quei monti, quelle alture son del ramo degli Erei, celebrati da Diodoro (Erei-Montes); e Frazzanò, poco scosto dal fiume che viene da Longi, e aggregato al mandamento Naso, da cui dista 7 miglia ad Ovest. La sua origine e moresca (2); fu detto a principio Farzano (3), poi Frazzanò. Ora a un miglio e mezzo da esso, verso Sud-Est, e un rispianato fra monti, sul quale, o in quelle vicinanze probabilmente, l'anno 1093, s'incontrò Ruggiero in ultima giornata coi Saraceni, e gli vinse e fugò mirabilmente. In memoria di tal giorno ei (fe' sorgere in quel sito un solitario Monistero, il Fragala dei Basiliani, dedicandolo a S. Filippo suo protettore; e vi lasciò, in esso la sua bandiera, cioè una splendida croce; che il Demanio dello Stato ha oggidì tolta a quel sito, a quel Municipio indolente, e condotta non si sa dove. ---------- (1) Questo diploma era nell’Archivio del monistero, come venneci assicurato; ma nel 1866 si sarà disperso o involucrato nelle altre carte. (2) FERRARA, op. cit. (3) Così lo chiama il FAZELLO, Dec. I Lib. IX, Cap. IV. |
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Che Naso fosse visitato da Ruggiero abbiam sospetto. Qui eran pur Saraceni, e troppo era noto il luogo per esser dimenticato. Anzi dai Normanni Neso fu detto Nasa (1), e via via si nomò Naso, come da qui innanzi faremo noi. Indi Ruggiero se ne fe' signore, secondo emerge da un suo diploma (2); e poi di meta fe' grazioso dono nel 1094 a Frate Ambrogio Abbate benedettino, e fù male. Ma eran quelli i tempi, quelle le istituzioni; terre culte riguardavansi castella, e come a dir glebe da impinguare signori, e puntellar tirannidi e prepotenze: erano insomma i sintomi di quel mostro spaventevole, il feudalismo, che in Naso tolse origine da questo periodo. Di quella rnetà donata ad Ambrogio ritenne Ruggiero le decirne, e s'ingannan coloro che si son dati a sostenere averle concesse al medesimo Ambrogio, Roberto Guiscardo Vescovo di Troina verso il 1094-, perocchè le concesse furon quelle di Patti“(3). --------- (1) Nel diploma qui sotto citato. (2) Ego Rogerius D. G. Calabriae et Siciliae, pro salote animae meae, parentum etiam, et filiorum fratrum, et consanguineorum, et uxorum mearum, et pro rimedio praecipue fratris, et domini mei Roberti ducis; concedente filio, et haerede meo Goffrido, et uxore mea Adelayde, Comitissa, dopo Monasterio S. Bartoloaei Apostoli, quod in Insula Lipari, per nos nostris temporibus, per dei gratiam costium est, cui venerabili Abbas Ambrosius pro Castellum pro Castellum quod Fitalia dicitus, cum appendiciJs sui omnibus; et mediatem Castelli quod Nasa nuncupatur, id sciliet, quod indominio meo tenebam, cum appendicijs suis omnibus… Gullelmus Malaspatarius dedit in Nasa unum Judeum cum filiis suis… et in Fitalia unum villanum ecc. (Authograph. In Tab. Eccl.Pact. Ecc. apud. PIRRI) (3) Praeter Nasum, in quibus decimas omnes retineo, et deproprietae ipsius Abatis, et redditione ipsuis villae etc.. (Dipl. ap. PIRRI). |
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Morto Ruggiero I e successovi Ruggiero II l'anno 1109, l'altra metà di Naso diè in dono alla famiglia Barresi, quasi testimonio di gratitudine riconoscente, sendo i Barresi suoi commilitoni e compagni di gloria e d'imprese. Il primo a godcre il beneficio fu Abo od Abone primogenito dell'illustre casato(1). Morto lui, per altra concessione di Ruggiero dell'anno 1134) quella metà passò a Gualtieri de Nantes, coll'obbligo di corrispondere al Vescovo di Patti la metà del bando, il fredo dei germani; specie di mercede che davasi al magistrato per la protezione concessa contro il diritto di privata vendetta; e infine la terza parte dell'entrate del mercato che tenevasi in Naso, dice il Gregorio (2); del foro ovvero delle composizioni giudiziarie, diciam noi. Imperocchè quel mercato teneasi in Naso a quei tempi? — Di mercati il più antico, il solo antichissimo, è quello di S. Cono; ma esso non venne innanzi che assai dopo; e osta quindi la ragion cronologica. Erra dunque il Gregorio, ed è chiaro dal già detto; chiarissimo poi dalle parole del diploma, che quella concessione contiene: in esso leggesi: Habeat sancta Ecclesia in perpetuum apud Nasum de blando quidem medietatem, similiter et de introtitibus fori tertiam(3). Ora la tertiam fori è appunto la terza delle composizioni giudiziarie; e tirare un mercato da queste parole non si sa. -------- (1) FAZELLO, Dec. II Lib. 9, Cap. 9. (2) Dititto Pubblico, Lib. I°, Cap. V, pag. 118. (3) PIRRI, Sic. Sax. Dipl. an. 1134, Tom. II, pag. 775. |
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In tal guisa eran le cose al 1134. quando ad Ambrogio successe Giovanni nel Vescovado di Lipari e Patti. Costui poco a poco contrasto Naso al Nantes il contrastò a Ruggiero assai più. Non si acquietò alle decime, alla sola metà di quella terra, come i lettori già sanno: andò oltre. Sostenne Naso non potersi concedere al Nantes, questi possederla illegittimamente, spettare intera al Vescovado e via via. Ruggiero incollerì, fe' cera brusca: erano arroganti pretese quelle del Vescovo, nè si piegò. Si venne ai tribunali, si discusse, si alligaron diplomi: la lotta minacciava allargarsi indefinitamente; stancava i giudici, aizzava i contendenti, e i giudici proposero, a finirla, una transazione dinanzi a Ruggiero. In che modo questa ebbe luogo si sa da un diploma(1): noi ci asteniamo dal riferirla, che l'animo, solo a scorrere in essa tante miserie e subiezioni, ha patito assai. Diremo unicamente che Naso restò sempre divisa, volea dir dilaniata, in due parti: Vescovado da un lato, Baroni dall'altro. --------------- (1) V. Lib. V. App. Gen. Lett. B. |
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In mezzo a queste lotte, a queste brighe forensi, a questa tetra luce di feudalismo, ci si fa innanzi una sembianza amabile, pacata, maestosa, che è come un contrasto fra il sentimento animatore di questi tempi, un sole che brilla su sentieri di nebbie: Conone Navacita insomma. In lui, come a centro splendidissimo si appuntano i raggi della storia nostra; tanto, che se lui non fosse stato, noi nulla, o poco e male sapremmo di quelle vicende, di quegli avvenimenti, che andiamo ed andremo gradatamente studiando. La storia nostra in una parola — ci si permetta la digressione — come storia esterna, come storia scritta, si aggirò intorno a lui, come a suo scopo, come a suprema finalità, e fu brutta cosa; perocchè monumenti, e vicende civili si obliarono, si lasciarono da parte, anzi tutto che non avea attinenza con lui. Di questo però meglio appresso: ora è a guardare il Navacita da vicino, a considerarlo intimamente e a grandi tratti secondo che il disegno di questo lavoro comporta. Nacque egli in Naso verso il 1139 da Anselmo Navacita e Claudia o Apollonia Santapau, entrambi d'illustre casato. Taluno gli volle nasitani, tal altro spagnoli; ma ei son bisticci che non tornano a nulla. Conone, benché unico di quella coppia, benché fra agi e mollezze educato, sentiva sin da fanciullo una segreta cosa, che aprivagli innanzi un più immenso e luminoso orizzonte, che non fossero le mura della sua abitazione, della sua terra, del mondo; sentiva che il dominar da signore, l'esser riverito pel fasto, per l'oro, per una certa altezza di condizion sociale, era apparente e miserevole illusione: sentiva che la vita, peso pei molti, godimento penoso pei pochi, era e dovea essere perenne sacerdozio, scambievole aiuto a conseguire quel bene che ciascuno confusamente apprende e in cui l'animo si queti. Giovinetto, ad udire talune parole di S. Matteo, si commosse, impallidì; e poi dopo, volenti o no i suoi, vestì l'abito di S. Basilio in quel Monistero sedente a due miglia da Naso, su graziosa collina(1). Ivi nello studio delle ecclesiastiche dottrine approfondì la sua vasta intelligenza, e presto ebbe fama di sapientissimo. Ancor giovine, e fu grande onore, venne insignito del titolo di Abbate di quel Monistero; ma di questa carica non si curò lasciolla anzi per passare a vita più quieta, più sofferente, a quella dcll'Eremo. E l'Eremo ei pose non tanto lungi dal Cenobio, ma in sito squallido e dirotto da ogni parte, oggidì poi inaccessibile (2). Lassù fra quelle balze, che da lui tolsero il nome di Rocca d'Aimo, cioè dell'ispiratore, del grande, ei sentissi come rapido in beatitudine. Da questo punto la sua vita piglia sembianze meravigliose, non sa più di terreno. Da Rocca d'Almo a S. Michele, chiesa entro Naso, ov'egli venne a chiudersi per alcun tempo; da Naso nelle Calabrie, dalle Calabrie in Gerusalemme, ella una successione mirabile di prodigi e di glorie, prodigi e glorie che si narrano, si ripetono, si propagano, si san già da tutti, e tutti levano le mani in segno di plauso, di adorazione(3). L'illustre Abate di S. Basilio, il povero Cenobita, l'oscuro figlio dell'eremo, non è più un uomo, egli è un martire; non è più un martire, egli è un santo. Ne basta. Da Gerusalemme il Navacita riede a Naso, la patria diletta; qui il suo pingue retaggio divide ai poveri; apre quella vena copiosa di carità che sovviene e conforta, che conforta e consola; quella carità ardente e versatile che compendia tutte le perfezioni, che afferma tutte le virtù. Egli poi muore, e muore miracolosamente. A 28 Marzo del 1236, s'udiron le campane della città, non tocche da alcuno, nullo tacto sonare, dice il Maurolico(4); accorso il popolo alla dimora di Conone, forse ad aver consiglio su quel mirabile avvenimento, trovollo in estasi sospeso: Morto era il suo corpo, ma effondente soavità di paradiso: sed odore nimio fragrantem, dice lo stesso Maruolico. E da un lato del celeste tegumento fu veduta pendere una lista luminosa, contenente le parole, che divennero poi famosissime: Libera Devotos et Patriam a peste, fame et bello et a tirannica dominatione.
Monreale ecc. In Castroreale conservavasi una bella immagine, che avea sotto questi versi:
Et petit Solyman, ut supplex, loca sacra revisit Ædibus in patriis optat obire Conus: Hoc Duce non bellum metuet Pestemve Famemve Nasus; nam tanto numine tutus erit.
Ne, a dir vero, quel martire invitto potea con più evidenza, con più fedeltà compendiare se stesso in questa preghiera: ella il rivela tutto, e tutto in mezzo a quei tempi. Egli, possiamo ora definirlo, fu una potente individualità: l'ideale della perfezione ridotto a mirabil concretezza: la virtù pura, indefinita che compie via via tutti i suoi stadi, affermando l'individuo sino all'apice estraneo, — la santità. — Nel Navacita poi l'individuo comune pare appena; si mostra in embrione, e quanto basta a sostenere — l’attività: questa e poi singolare, costante, meravigliosa di per se — l'opera del bene; e del Navacita si può dire, come nel Vangelo, pertransit benefaciendo: in lui sovratutto e la realità ideale del patriottismo, il cittadino nella sua purezza primigenia e rara; ciò che non han veduto o saputo vedere tutti quei biografi di lui, smiracolanti e impigliantisi nella narrazione d'inezie e di apologhi, da ciammengole e bracine. Fu il Navacita alto e robusto della persona; di fronte serena e spaziosa; di occhi pacati e soavi; di carnagione bianchissima e colorita; fatta indi pallida, velata, ma sempre fresca, quando la penitenza venne logorando e consumando il suo corpo: sul volto poi, veramente divino, vi aleggiava un'aura di arcana malinconia; quell'aura malinconica che fa spesso della bellezza un fascino, e che tutti muove e innamora (5). -------- (1) V. Lib. IV, § 22. (2) Ibid. (3) Il culto di lui dopo morto, venne allargandosi straordinariamente; e poche furono le città e le terre ove non ebbe un’ara od un tempio, e che non richiesero le sue reliquie. Fra tante che il celebrano nomineremo Palermo, Messina, Siracusa, Catania, Milazzo, Castroreale, Rometta, Troina, Girgenti, Gagliano, Patti, Cefalù, Piazza, Castrogiovanni, Caltabellotta, Chiusa Mazzara, Monreale ecc. In Castroreale conservasi una bella immagine, che avea sotto questi versi: “Et petit Solyman, ut supplex, loca sacra revisit AEdibus in patriis optat obire Conus: Hoc Duce non bellum metuet Pestemve Famemve Nasus; nam tanto numine tutus erit. Nella città di Piazza evvi un feudo che da più secoli chiamano S. Cono. E’ diviso in due parti: S. Cono superiore e S. Cono inferiore, con un’antichissima chiesa al Santo Abate consagrata (MUCCIONE, Vit. Di S. Cono, Lib. III, Cap. 16°). Il feudo è antichissimo appannaggio della nobile famiglia Trigona con titolo di Barone; alla quale fu ancora da Filippo IV concesso il titolo di Marchese di S. Cono, o Dainamare, a 22 maggio 1662 e a 16 settembre 1668. Il feudo venne ai Trigona dai principi di Butera per contratto di vendita, e fu appellato Cono perché posseduto a principio dalla famiglia Santapau consanguinea del santo (PICCOLO, ms.° cit.°). (4) V. lib. IV App. Gen. Lett. Q. (5) Così appare da un ritratto antichissimo, di cui parleremo al lib. IV, § 7. . |
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Lasciando ora il Navacita, noi ritorniamo nuovamente ai Baroni. Duro compito e il nostro ma inevitabile, perocché son le vicende di un feudo che bisogna seguire. Ma che era il feudo? che il feudalismo? quali gli elementi, l'organismo di questo istituto? — Anche a noi è venuta la voglia di conoscerlo; e poiché l'avremo a sentire ancor lungamente, non e fuor d'opera spender sovr'esso due brevi parole. Il feudo, — checché ne dicano i Francesi attribuendolo al loro Childeberto, — è creazione germanica: deriva da feod, e vale godimento, possesso del soldo, da un lato; indica fede dall'altro: due idee distinte che si chiariranno a vicenda da ciò che or ora svilupperemo. — In Sicilia gl'istituti feudali crebbero a un tratto e parvero adulti, dovechè altrove eransi stabiliti lentamente ed a gradi. Ruggiero gl'introdusse e die loro forma e organismo, forma e organismo dapprima in embrione, poi impigliati, poi modificantisi con successive modificazioni, a seconda il vario movimento politico dell'isola(1). L'invitto Conte, delle tante città, terre e castella, che costituivano il suo dominio, parte ritenne, parte divise fra quelli dei suoi nei quali riconoscea un singolar merito, o che nella conquista più virtuosamente adoperati si erano. Queste concessioni, queste divisioni moltiplicaronsi poi, e l'idea feudale venne sempre e più nettamente determinandosi, venne sempre e più nettamente allargandosi. I feudi incominciarono a distinguersi per classi, a notarsi per ordini e dignità nel milite, nel Barone, nel Conte. Il milite dipendeva dal Barone; era come a dire un amministratore, e dovea seguirlo in tutte le spedizioni militari, e averlo come superiore nella corte feudale della signoria. Il Barone poi dominava più feudi, amministrati dai militi; ed era Signore rispetto ai vassalli. II Conte finalmente era l'ultimo grado, e la prima dignità dello Stato. La contea comprendeva più feudi e più baronie; e i Baroni erano i naturali dipendenti del Conte, i suoi militi insomma. Da qui la splendidezza e la pompa di che venia coronata e suffulta la loro creazione. Tutti quanti eran poi soggetti al Principe, al Re, ch'era il primo Signore, la suprema autorità dello Stato. Dobbiamo però notare che i rapporti fra il principato e le signorie dieron poi argomento a contese infinite; e ogni loro dichiarazione, spesso, traevasi dietro la ribellione di un castello, la scintilla di una guerra, la infelicità e miserie dell'isola insomma. Di questi rapporti noi diremo alcunché, limitatamente a questo lavoro, e alla intelligenza di esso. I feudi erano inalienabili, soggetti a prescrizione, e talvolta ereditari. La inalienabilità è però poco esercitata, come poco osservate tutte le altre leggi e statuizioni. I feudi veniano o direttamente dal principe, e diceansi in capite, o per subalterne concessioni da un Da qui la formula usata nei diplomi normanni, e in taluno fra quelli da noi riportati in quest'opera, per cui alla prima classe riferivansi i feudi che dicevano tenersi in demanio, e alla seconda quelli che teneansi in servizio. Il Signore del feudo giurar doveva ai suo principe concedente di difenderlo nella vita, nelle membra e nell'onore, e di aiutarlo contro chiunque lo volesse offendere. Giurar doveva eziandio ai vassalli di osservare i Capitoli e consuetudini del feudo, di che s'investiva(2). — Morendo il Barone il suo successore pagava al signor supremo una certa prestazione detta relevio', il medesimo avveniva alla morte di un subfeudatario. Quanto all'amministrazione della giustizia, ella non facea parte dell'investitura del feudo; era mestieri di un'espressa concessione del Principe, in che tutta risiedeva. Presso a ogni Barone era un bajulo o baglio, il quale decideva ogni maniera di controversie civili, meno le feudali. I suoi pronunziati rendeva in prima istanza; revocabili in seconda, presso il Camerario, eran sin'anco cassabili in ultima istanza dal Gran Giustiziere, capo del potere giudiziario, amministrativo e militare. Più tardi ai bajuli fu data la competenza criminale, limitata ai soli delitti, cui rispondeva la pena infra la relegazione. Essi pronunziavano con l’accordo in un Giudice c d'un Notajo, ch'eran loro Assessori e dipendenti, e coi quali formavano la corte bajulare. Aveano inoltre attribuzioni di polizia, doveano aprire e compilare i processi. Nei tempi più vicini a noi, i bajuli però s'impacciano appena in queste incumbenze; vengono surrogati dai Capitani, i quali son giudici civili e criminali scelti dai In Naso si conservan memorie di quest'ultimi: ne fa fede un carteggio del secolo XVII scambiato a occasione di un omicidio di certo Civello, che noi abbiam letto accuratamente(3).Nei ramo economico e finanziario v'erano i Giurati, e un regio Segreto. I Giurati, eletti a suffragi popolari, ebber dapprima limitato ufficio; indi col bajulo, coi giudici e con gli assessori costituirono la corporazione municipale; in una parola, i Consigli Comunali di oggidì, se togli la strana mescolanza dei due poteri, amministrativo e giudiziario. Dipendenti dei Giurati erano gli acatapani, o maestri di piazza; i quali sorvegliavano l'annona, le fiere, i mercati e via via. II regio Segreto intendeva all'esazione delle rendite pubbliche e dei proventi ordinari. Queste rendite e questi proventi eran molti e penosi, immoralissimi talvolta. Dividevansi in due classi: servizi e prestazioni. I servizi, detti ancora diritti angarici o angarie, consistevano in quelle opre che, per ragion di persona, i vassalli ascritti al feudo doveano al proprio signore. Dei vassalli venia redatto uno stato, detto platea', e bench.'essi abitassero fuori del feudo, ascritti una volta vi eran sempre tenuti; di che ascrittizi appellavansi. Cosi avvenne ai sessanta villani di Sinagra abitanti sul territorio di Naso; essi doveano prestar servizio al proprio Barone, non già a quel di Naso. Erano servizi le diete, specie di opere personali, di cui ciascuna valeva una giornata; lo apprestare i buoi per parecchi giorni a dissodare i campi del signore; fornirgli i cerchi per le botti; recargli galline e cacciagioni alla Pasqua; lavorare nelle sue terre per determinate settimane in ogni anno, e segnatamente al tempo della vendemmia, delle seminagioni, della pesca. — Molteplici e penosi eran dunque i servizi, più che noi non abbiam detto e fors'anco inimaginato. Ma più dure, più aspre, più intollerabili ancora le prestazioni. Di esse ricorderemo le decime coloniarie; il portatico', il pontatico', il plateatico', la tassa sulla verginità; i pedaggi pel trasporto delle merci; il glandatico e l’erbatico pel pascolare, il terratico per ie seminagioni; eppoi dazi e gabelle a furia, sui mulini, sui trappeti, su i forni. E talvolta i trappeti, i forni, i mulini eran. proprietà esclusiva del signore; e, ch'è più, costituivano un privilegio severissimo, come furono in Naso per molto tempo. Insomma gl'istituti feudali, insino a Federico II massimamente, avvilirono la dignità umana, negarono la personalità, abbrutirono in perenne schiavitù popoli e castella, feudi e signorie, spegnendo ogni sereno lume di civiltà e grandezza vera. In Naso però, — notiamo con piacere questa circostanza, — il feudalismo incominciò a scuotersi assai prima che altrove, venne prestissimo in aborrimento, e aborrito si pensò abbattere e svigorire, con allentare e sciogliere i ferrei legami, con illanguidire e scemare i rapporti fra baroni e vassalli, col riacquisto pacato o violento di diritto perduti, che crebbero quindi, riducendo sensibilmente le prerogative ed i diritti del principe. Questo noi vedremo appresso, e al periodo dei Joppolo segnatamente. Ora e a continuare la nostra storia.
-------- (1) Sul feudalismo consulta: GREGORIO, Diritt. Piub. Pag. 105 e seg.; WINSPARE, Storia degli abusi feudali; CARUSO, pag. 282-276; Codice di Federico II, Lib. III, tit.18; MURATORI, Diss. Dei tributi, delle gabelle, pag. 226; PIRRI, Sic Sac.; MASTRILLI, De Magistratibus, Tom. II Lib. Iv, pab. 96 e seg.; CUTELLI, Leg. Sic., pag. 73 e seg.; APRILE, Crono. Di Sic., pag. 381 e seg. (2)In Naso questo giuramento dovea farsi nella Madre Chiesa. V. Lib. IV, § 12 w App:Ge. Lett. F. (3) Si conserva nella Cancell. Comunale |
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Cessata la lotta fra il Vescovo Giovanni, Ruggiero e il Nantes, quella parte di Naso, argomento del giudizio, ebbero i Barresi novellamente, cioè: Matteo I, Giovanni II, e Abone II. — Morti costoro, passò ad Abone de Guerras; il quale ribellatosi a Enrico IV, presto ebbe a lasciarla, e gli successe Filianello Pisano. Questi, vivente Ruggiero, stiè fermo e circospetto; morto Ruggiero, vennegli in uggia Federico I, che allora cingeva la corona di Sicilia, e l'uggia dimostrò coi fatti; però arrogante quanto debole di forze, ci finì con rovinare se stesso. Quel Monarca spogliavalo non solo della parte di Naso, ma degli altri feudi ch'ei possedeva. In quell'anno medesimo poi (1200) Federico, la ridetta parte di Naso concedeva a Stefano Vescovo di Lipari e Patti, come da un Diploma di quel tempo (1); e Naso in tal guisa riunivasi tutta sotto a un solo signore. -------- (1) Quia Stefanus venerabilis Pactensis Epicscopus fidelis noster, in necessaria articulo, decem et septem tarenorum milia, Gualterio (de Palena) pro servitiis nostris satis liberauiter, et libenter exhibuit, ei pro nostris dedit servitiis exequiendis, concedimus ips et successoribus ejus, medicatem autem Terra Nasi, quam videlicetAbbas de Guerras tenuit, et ex judicio D.ni Imperatoris vidae meditor ejus fuit. Post modum autem ipsam Filianellus Pisanus tenuit et possedit, et quia similiter, profitor noster inventus est, fuit ea Justo judicio destinatus ipsam si quidem mediatem Nasi concedimus et donavimus integre et sine aliqua dimunutione, com omnibus justis tenimentiis et pertinentiis, tam in demanio quam in servizio etc.. (PIRRI, op. cit.) |
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Non la godeva pero Stefano, che non giunse a impossessarsene; tante e cosi vive e cosi pertinaci furon le opposizioni del Pisano. Federico infuriò, invelenì, giuro di perdere questo Barone arrogantissimo. Ciò ch'egli poi fece, e se vi riuscì, non si sa dire; v'è qui proprio una lacuna tenebrosissima. Vediam la celebre metà di Naso in mano di Anselmo, altro Vescovo successore di Stefano(1); poi Naso intera passare alla famiglia Barresi; e le ragioni son li avviluppate nel mistero (2) Dei Barresi fu primo in questo tempo Matteo II; il quale se ne spogliò tosto per concederla al nipote Giovanni. Intelligentissimo era costui, e d'animo caldo e generoso. Ma, preso dalla fama del grande ammiraglio Loria, dichiarossi al partito di Carlo d'Angiò e di Giacomo re Aragonese; obliando in tal modo sciaguratamente quel gran bene di che larghissimo gli era stato Federico. Il quale, poi ch’ebbe vinto e trionfato dei suoi avversari, si ricordò del Barresi, della fede tradita,e fu inesorabile e fiero nel vendicarsene Spogliò la casa Barresi di tutti i beni e castella di suo dominio(3), e investiva di Naso e Capo di Orlando la famiglia Alagona; alla quale, in segno di distinta benemerenza, accordava l'ampia giurisdizione criminale(4). Ondechè, a questi tempi, in Naso, la corte bajulare avea pienissima competenza: ella giudicava delle più lievi contravvenzioni, come dei delitti e dei crimini più gravi. Privilegio notevolissimo questo, ma che pur troppo nocque agli effetti, agl'interessi della giustizia, levò i lamenti dei giureconsulti siciliani, e presto ebbe a temperare e restringersi successivamente. --------- (1) Anno seguenti, Rex ipse, ac ejus uxor Costantia, scripto Panormi, Privilegio mense Septembri. Ind. XII, regni Friderici XII, illam mediatem casalis Nasi, cum castello ac perentiis suiscujus praedecessor Episcopus possessionem non fuerat consequutus, elargintur, atque conformant (PIRRI ibid. f. 157). (2) Sappiamo dal Pirri che ebbe luogo nel 1254 una divisione fra il vescovo Bartolomeo Varelli e il Barone, in cui si convenne di mettere in comune e il diritto e le rendite di Naso “Jura oppidi Nasi ipsi Episcopo et Baroni communia dividenda ex istrumento voluit”, (In Not. Eccl. Pact., f. 264) (3) FAZELLO, Dec.. 2, Lib. IX, Cap. III. (4) GREGORIO, Diritt. Pub., cit. pag. 328. |
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Blasco Alagona, primo di tal nome, sali il seggio feudale di Naso(1) (1295). Era aragonese, grande amico di Pietro I, che li condusse in Sicilia; gran guerriero, grande esempio di fedeltà e di abnegazione, grande e generoso animo insomma. Fu Conte di Mistretta, Maestro Giustiziere, Maresciallo e Governatore della Calabria; e tutte le sue dignità con morigeratezza, con rettitudine, con senno pratico condusse, ond'egli fu amato e desiderato sovramisura. Sotto il suo governo, Naso ebbe a lamentare una delle battaglie più disperate e immorali, che affissero quei tempi destando orrore e sbigottimento; ed ebbe a lamentarla assai più, essendo ella avvenuta su la spiaggia del Capo di Orlando. — Nacque dalla contesa fra Giacomo e Federico re Aragonesi, entrambi fratelli, entrambi in fiera nimistà, entrambi contrastantisi con ansia indicibile il trono siciliano. Giacomo era già re, già aveva toccato la sicula corona; quando Federico raduna il Parlamento in Catania, ottiene i voti di tutta la Nazione, va a Palermo, si cinge il diadema, depone il fratello e festeggia il trionfo con accademie e giostre splendidissime. Giacomo arde allora di sdegno. lincitato e sospinto vivissimamente da Bonifacio VIII, papa, cala subitaneamente in Sicilia, volge verso Patti, nei cui dintorni erano i castelli di Lauria, vince e sottomette con grande agevolezza quelle popolazioni. Però respinto dalle armi di Federico, avvilito poscia, è costretto a levare il campo e far ritorno in Napoli. Allora tutto cadde in silenzio e la pace tornò. Ma Giacomo con le sue armi non depose lo sdegno; e surto l'anno 1299, egli col presidio di cinquantasei galee venne a tentare novellamente i mari della Sicilia. Al primo annunzio Federico intimò il servizio militare, in cui il nostro Alagona fu così notato: Dominus Blascus Alagona pro terra Nasi et Castro Capitis Orlando (2); onoro il medesimo del comando dell'esercito, e diegli a subalterni Vinciguerra Palici, Bernardo Rebelli Conte di Garsigliato, Ugone de Ampurias Conte di Squillace e Garsia Sanchez. Il teatro della lotta fu il mare di Capo di Orlando. Qui il 4. giugno di quell’anno (1299) le due armate nemiche vennero a finale giornata. Tremendo fu il contrasto, e che è più, lunghissimo, deplorevoli le conseguenze. Dapprima la sorte parve sorridere a Federico: le schiere di Giacomo infiacchirono un istante, e massime per la morte di Gombaldo Intensi; il quale, arso della sete, contristato profondamente dello sgomento signoreggiante le file aragonesi, tratta una galea alla spiaggia, vi scese, si volse indietro, guardo e ruppe in lagrime; e l'animo suo che ancor fuggiva, spiro sul proprio scudo disperatamente. Il suo morire però, in quella di crescere sconforto, inanimì le schiere di Giacomo; le quali, dando l'ultimo assalto, sgominarono e ruppero siffattamente quelle di Federico, che questi, chiamati l'Alagona, il Rebelli e l'Ampurias, fu a un punto di arrendersi. Si oppose l'Alagona malgrado il dissentimento del Rebelli, e si tornò alla pugna, all'estremo cimento. Orribile scena fu quella! — Le soldatesche di Giacomo impaurite fuggivano, altre disperate sceglievano l'annegarsi; il mare sparso di tele, di frantumi, di vestimenta, dava onde e spume sanguigne; eppoi soldati fuggenti su la riva, galee in rotta su le acque, confusione estrema da ambe le parti. Però Giacomo vinse, ma squallido fu il suo trionfo, squallidissimi i suoi allori. Di che, egli, oppresso dalla vergogna, scortato dalle sparute galee rimastegli, trasse in Aragona facendo pensiero di non più trattare le arrni. Dell'orrendo macello intanto fur vittima cinque illustri esistenze, onore e lume della corte di Federico, cioè: Raimondo Anzalone, Giacomo Capece, Giacomo Scordia, Federico e Pirrone Rosso. Blasco Alagona due anni poi, recavasi a Messina; e mentre argomentavasi a sedare i tumulti che agitavano il regno, e a far bella e onorata la bandiera aragonese, usciva di vita lasciando di se imperitura memoria.
---------- (1) CARUSO, Lib. 2 e 3. (2) FERRARA, op, cit.. Tom. IV, pag. 125; FAZELLO, Dec. 2, Lib. IX, Cap. III. I Nasitani ebbero parte in questa battaglia, perocchè allora, e come si argomenta dalle riferirite parole, era obbligatorio in servizio militare. |
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A Blasco I, nello stato di Naso, succedeva il nipote Blasco II. Fu costui mite animo, conciliante e pacifico, amantissimo d'ogni maniera di virtù; anch'egli Maestro Giustiziere, Conte di Mistretta, Capitano degli eserciti reali, esecutore testamentario di Federico II, sempre rifulse di fama splendida e incontaminata. L'ebbero a padre tenerissimo i monarchi Pietro II e Ludovico d'Aragona; anzi di Ludovico fu balio per molti anni, reggendo il governo di Sicilia. Ed è di questo baliato che ora noi ci occuperemo, avvegnachè esso concitò subbugli e dissensioni gravissime; dissensioni e subbugli che misero in rumore l'isola, tutta esercitando eziandio su Naso la loro funesta influenza. Erano a quei tempi in Sicilia (1347) due potentissime famiglie: i Palizzi e i Chiaromonti. Ambi muoveva un desiderio, predominava un pensiero: quello di perdere tutti i Baroni del Regno. Parve il primo sintomo di avversione al feudalismo, la prima protesta contro il fiero istituto; se però veniva davvero ispirata da questo sentimento, schiettamente non sapremmo dire, ne i nostri storici se n'inpacciano punto; ma questo e non altro dovea essere, benchè, a vedere, paresse ambizione e smania di dominio. Palizzi e Chiaromonti adunque si strinsero in lega, invigorirono scambievolmente, e irruppero con incredibile audacia su le sicane contrade, mettendo a sacco e fuoco terre e castella. Matteo Palizzi, uomo astuto, indocile e superbo, era la mente e il braccio della insurrezione. Egli, forte di numerose armate, venne a porre l'assedio in Naso; insignorivasi di Capo di Orlando, scacciavane l'Alagona. Il gran giustiziere però, — e fu grave atto di politica più grave, — non si mosse, non l'ebbe a male: chiarnato il Palizzi, il trasse poco a poco a sue voglie, a intavolare capitoli di pace. Cosi soffocava quel primo impeto bollente e ruinoso, salvando il regno da ulteriori disastri. Ciò nell'anno 1349- — Ma nuove turbolenze si concitarono; crebber le fazioni e avanzaronsi celerissimamente; e in questo, colto il destro Francesco Palizzi, cugino a Matteo, l'anno 1354, con poderoso esercito e con la sua famiglia, venne in Naso. L'esser questa allora murata e difesa da altissimi bastioni(1), gli crebbe l'animo sovramisura. Si chiuse quindi entro al castello, vasto e sicuro fabbricato, aspettando quivi l'aggressione nemica. E in vero, su lo scorcio di quell'anno, il Conte di Geraci s'avviò per di là con sue soldatesche; strinse da ogni lato arditamente il Palizzi. L'assedio fu lungo e disperatissimo; stancò gli abitanti, levò grida e minacce terribili; ondechè il Palizzi, per non vedersi trucidato dal popolo già impaziente, fu costretto ad aprire le porte, e dar contro alle schiere del Geraci. S'impegnò allora una mischia formidabile, nella quale il Palizzi, preso prigioniero, una alla sua famiglia, stretto in catene, venne condotto vergognosamente in Catania (2). In tal guisa Blasco II Alagona tornava al dominio di Naso e Capo di Orlando; dominio ch'egli nel 1355 lasciava al suo primogenito Giovanni, morendo dopo un anno appena da quel terribile avvenimento(3) ------- (1) V. Lib. IV, § 2. (2) CARUSO, eo an. Sub Ludovico; Fazello, Dec. 11 Lib. IX, Cap. V; GREGORIO, Lib. V. pag.368 (3) Moriva 4 giorni dopo del re Ludovico. Le sue ceneri riposano nella Chiesa di S. Agata in Catania |
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Continuavano ancora le fazioni con lor scempiaggini e nefandezze quando nel 1356 Giovanni pigliava investitura di Naso e Capo d'Orlando. L'odio contro ai Baroni, simulato o no da quell'apparenza di dominazione superiormente accennata; mosso o no da quell'occulto sentimento, ostile alla feudalità, non s'era peranco sopito; infieriva assai più, guadagnava anzi e sempre nuovi affliati e campioni. Dei signori non eran più nemici unicamente quelli che, schietto schietto, s'eran cosi dichiarati; nemici erano ora anche i lor dipendenti, quelli che più stringeva dovere verso i lor padroni; e fra questi i Prefetti e Governatori. Si vide chiaro in quell'anno, quando l'Alagona, per sue cure chiamato altrove, ebbe a lasciar Naso a un suo Prefetto. Questi, a metterlo in odio e in avversione, sfogò rabbioso su quei vassalli, sfoggiando oppressioni e malanni di nuova ragione. Se ne recarono i vassalli, minacciarono il Prefetto, ed egli allora tutto lesto a rispondere ipocritamente: non poter fare altrimenti, quella esser volontà del loro Signore. Ne basta. Guadagnatisi via via alcuni aderenti, facea sollevarli; e stupidamente veniva da costoro eletto a loro principe, scacciato il legittimo barone. — Tanto increbbe agli ordini culti del paese; increbbe assai più quando, venuto l'Alagona, fu, delle patite oppressioni, trovato innocente. Di che, più aizzati gli animi, si volsero a rimetter l'Alagona nell'usurpato domimo. Succedeva quindi un tumulto fierissirno, nel quale il Governatore, accoltellato dal popolo, fors'anco dai suoi, miseramente periva(1). Tremendo esempio questo, che fe' badati indi innanzi i signori su la scelta di chi avea a rappresentarli; sul carattere di quei nasitani indomito e severo, da tutte tirannidi ed ingiustizie nemico, sollecito a scuoterle inesorabilmente. ------------ (1) FAZELLO, Dec. II, Lib. IX, Cap. VI; CARUSO, ib. Op. cit. |
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Però la pace non si vedeva, ne aveasi modo di riacquistarla: era destino che la Stella degli Alagona avesse a impallidire e spegnersi oramai. Giovanni, quasi fosser poche le sedizioni sofferte, in quell'anno medesimo videsi tolto Naso e Capo d'Orlando, e sostituito, lui vivente, Nicolò Cesario cavalier messinese. Tutto per volere di Luigi re di Napoli, a cui era il Cesario divotissimo, e uno di quei faziosi ribellantisi a Federico III. Trionfato poi questo monarca, ritornava a Giovanni il perduto potere. Ma egli, oppresso da tante ingiustizie, avvilito dagli affanni sofferti, ritiravasi a vita semplice e riposata, dando Naso e Capo di Orlando al suo cugino Artale Alagona. Artale, a sua volta, ebbe a sostener gare, dissensioni e lotte acerbissime; e divenne sì celebre nei fasti siciliani, che non v'à storico o cronista che di lui non tratti e narri diffusamente. Egli fu largo di benefizi a Naso; intese sempre a migliorarne le sorti; e onoro di cinque giorni di franchigia la fiera di S. Cono, secondo il diploma del 10 febbraio 1362, che riporteremo in appresso(1). Gli succedeva nei dominio di Naso un suo parente di nome Blasco III. Fatale alla famiglia, tentò questi eclissarne la gloria. Agitato e gonfio di ambiziose pretensioni, fu di quei signori che sollevaronsi contro Martino (2), iniziante il dominio dei Catalani in Sicilia. Però ebbe e vanamente a pentirsene, avvegnacchè, mentre fervevano i partiti e le sommosse, il Conte Guglielmo Peralta e Nicolò suo figlio, con buona mano di mercenari vennero ad assediar Naso(3). Si trovarono confusi e sgomenti gli abitanti all'assalto inaspettato; stettero alquanto perplessi, e sconfidandosi di trattare le armi, tanto, perchè un barone come Blasco III valeva quanto un altro, si resero facilmente in potere del Peralta. Cessati però gli sconvolgimenti dell'isola, e, assodato, Martino cacciò da Naso il Peralta, mandò fuori Sicilia gli Alagona, e ritenne in suo demanio fino al 1393 Naso e Capo di Orlando. Cosi spariva la famiglia Alagona; spariva dai suoi vasti dominii, mancava alle splendide cariche, e ciò per l'opera di chi, improvvisamente, dimenticava il senno e la sagacia dei suoi predecessori.
--------- (1) V. Lib. Iv, app. Gen. Lett. C. (2) GERGORIO, op. cit., Lib. V. pa.394 (3) FAZELLO, Dec. ii, Lib. IX, Cap. VIII; PIRRI, Chron. Eccl. Pac, an. 1392. |
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Deplorevole a dir vero era lo stato di Sicilia ai tempi di Martino, e quel monarca molto ebbe a soffrire e a combattere per trionfare: grandi e agguerrite fazioni il contrastavano, e tutte ebbe a contrastarle: Palizzi da un lato, Chiaromonti da un altro, poi Peralta, poi Montecatini, poi Rosso, poi Ventimiglia... era uno sgomento. Capì via via che suo principale ostacolo, il solo anzi, era nei baroni. Pensò dunque a crearne di nuovi e di buoni, che fossero suoi segnatamente; e fra questi fu Bartolomeo Aragona, a cui esso Martino diè Naso e Capo d'Orlando (1373)- Ma l'Aragona deluse le speranze del re, ch'era pure suo compatriota, il tradì sciaguratamente. Onde, Martino, vinti e sgominati i suoi nemici, tornato a più forte signoria, spogliollo di quei feudi; ma l'Aragona non volle saperne; e andò a chiudersi con della bruzzaglia nei castello di Capo d'Orlando. Vi accorse Bernardo Cabrera conte di Modica, speditovi da Martino, lo cinse di assedio, lo atterrì, lo affamò; ed egli, dopo funestissima lotta, scampava appena con la fuga lasciando i suoi nei tremendo cimento(1). Il castello patì di questo assalto, restò conquassato e ruinante; e da lì a poi non rimase di esso che una torre, caduta pure col tempo. Naso e Capo di Orlando tornarono quindi a Martino. Nel 1400 vennero concessi a Francesco Raimondo Xatamar, camerlengo del regno e gran letterato; ma per poco tempo; perocché risegnati col titolo di vendizione ai real dominio, passarono nei 1406 a Bernardino Centelles, e poi al figlio Antonio, marchese di Cutrone (1). Questi ribellatosi ad Alfonso il Magnanimo, fu costretto a permutarii con la illustre famiglia Cardona, della quale ragioneremo.
---------- (1) GREGORIO, ibid. (2) MUSCIA, Sic. Nob., pag. 112. |
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Dei Cardona Pietro fu il primo: Camerlengo del regno, Grande Ammiraglio e Gran Giustiziere, ebbe ingegno culto, e molto si compiacque di lettere. Durò lungamente al governo di Naso; ma di questo governo poco ci han detto i cronisti, nulla gli storici. Morì sul finire del 1457 in Golisano, ove riposano le sue ceneri in quel Convento di Francescani conventuali. — L'anno appresso aveva Naso Artale figlio di lui marchese della Padula. Animo dolce, temperamento gentile, volle un gran bene ai nasitani, in mezzo ai quali convisse in soavissima quete. Pio e beneficente, decorò il paese di un nobilissimo convento di frati Osservanti; nella Chiesa del quale veniva nel 1477 deposito il suo cadavere(1), onorato dalle lagrime di un popolo intero. Anni dopo la sua morte gli succedeva il figlio Pietro II, marito a Susanna Gonzaga, che tenne Naso sotto i re Giovanni, Ferdinando e Carlo V. Concesse egli a 6 ottobre 1483 tre giorni di franchigia alla Chiesa Madre per la festa dei santi Filippo e Iacopo, cui ella è dedicata. Caduto da prode nella battaglia di Bicocca nel milanese a 22 aprile 1522, lasciava Naso al figlio Artale II, Conte di Golisano e marchese della Padula. Sposò questi Maria Ventimiglia; governò con probità ed amorevolezza; ma il suo governo fu di poco tempo e non ebbe successori. — Lui dominante, Naso fu preda di Corsari Algerini, guidati dal celebre pirata Muratto; i quali innamorati delle rive orlandesi vi avean fatto stanza e covo orribilissimo. Di qua sbucavano su le campagne, rubando alla strada, . mettendo spavento per tutti quei luoghii (2). Rimedio non v'era, o almeno non si cercava o si disperava trovarne, perocché gagliardi dovean essere quei pirati, e, ch'è più, numerosi. Si provvide poi con una guardia permanente, che avea dimora nella torre del Capo; si ricorse al Cielo, furon fatte preghiere; e in quei tempo e per queste cagioni i cronisti assegnano la erezione della Chiesa dedicata a N.S. di Capo d'Orlando. Ma di ciò diremo meglio a suo luogo(3). Cotesti pirati adunque, dopo varie scorrerie salirono in Naso. A quanto sembra, essi furono respinti, ricacciati aspramente fuori le mura; però danni ebbe a soffrirne il paese. Dicesi bruciassero gli Archivi notarili, e il crediamo; poiché i più antichi degli esistenti protocolli non vanno più in la del 1503 e son quelli del Germanò). Del resto non si sa più; la tradizione per lungo silenzio già fioca, e oramai confusa, aerea, indistinta.
---------- (1) Lib. IV, App. Gen.. Lett. A, Inscriz. L. e § 19, Lib. IV. (2) PICCOLO, ms.° cit.; ALIBERTI, Mar. di Dio nella sua Mad.; GAETANO, op. cit. (3) V. Lib. IV, App. Gen. Lett. F. |
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Da Susanna Gonzaga, moglie come si è veduto superiormente a Pietro II Cardona, nacque Antonia contessa di Golisano; pia, virtuosa e affettuosissima donna. La quale, fatta sposa ad Antonio Aragona, governò Naso e l'ebbe a cuore indicibilmente. Cieca ai voleri di sua madre, crebbe due giorni di franchigia a quelli già concessi da Artale Alagona sul mercato di S. Cono(1), del qual santo ella fu poi tenerissima in sommo, comeché liberata da perniciosissima malattia, secondo ne fanno testimonianza le cronache del tempo. Dopo molti anni ella ebbe un figlio di nome Pietro; cresciuto e allevato da lei con vivissime cure e con singolare affetto, siccome unico ch'egli era, fu poi il suo erede col nome di Pietro Aragona de' Cardona. Quanto a titoli, dal padre pigliò Pietro quello di Duca di Montalto, e dalla madre quelli di Conte di Golisano e Barone di Naso; del quale ultimo ebbe l'investitura sotto l'imperatore Carlo V a 20 Febbraio 1545- II suo governo, benché in se stesso non meno indifferente di quelli più indifferenti da noi veduti, rimase tuttavia memorabile per un grande avvenimento toccato a Naso. Suscitata a quel tempo la tempo la guerra tra Spagnoli e Francesi, o meglio tra Carlo V e Francesco I, Solimano Imperatore dei Turchi, richiesto d'aiuto, venne in soccorso di quest’ultimo mandando Ariadeno o Cairadeno Barbarossa con potentissime legioni turche. Era Ariadeno uomo fiero e crudele, ambizioso e sfrenato assai più. A sfogare le sue malnate passioni, niente di meglio ei voile di quella spedizione. Scese dunque in Italia, correndone il litorale con centociquanta galee, struggendo, devastando, sgomentando terre e castella: pigliò Nizza, atterrò Ischia, e già giù. diè fondo a Lipari il I giugno1545- Lipari asserragliata, ansia, levata in armi, lottò generosa, sostennesi invitta; ma tradita da iniquissimo figlio, Giacomo Camagna, fu vinta e depredata, restando fra le catene più di 10.000 cristiani (2). Da Lipari Ariadeno mandò trenta galee a Patti; e Patti fu incendiata insieme al suo borgo. Da Patti si venne a Capo di Orlando. Tremò quella riviera all'infausto arrivo; e un’eclissi spaventevole sbigottiva in quel punto turchi e orlandesi. Ma i turchi, preso poi animo, mettono tutto in ruina, si avanzano rabbiosi, passano abbruciando campagne, toccano le vie esterne di Naso. Erano essi al fonte S. Giuliano arrivati, quando i nasitani, accorti della tremenda aggressione, chiudon le porte, sbarran le vie, si stringono in disperata difesa. L'armata di Ariadeno numerosa e feroce già batte alle porte del lato Marchesana: in Naso è un correre, un inanimirsi a vicenda, un fortificarsi scambievole, un bairamme insomma. In quella, ecco i turchi dar mano alle scale, tentare i bastioni, e la lotta incomincia, infuria, e sorbolle; ma a un tratto i turchi cedono, inviliscono, si arretrano: perche? v'è del miracolo pei biografi del Navacita(3), sia: ma i nasitan intanto aprono le porte, su le inique legioni si lanciano, le inseguono, le accanano mirabilmente; e i turchi, lottando, fuggire da tutte le parti, e dalla regione orientale segnatamente, fuggire a dirotta per quelle balze, per quelle vie trarupevoli, per quelle chine precipitose, e intanto una pioggia, diremo tempesta, di pietre, di massi, mutilarli, schiacciarli, finirli miserissimamente. Vittoria! si grida da ogni parte; vittoria! ripeton le madri, le spose, i figli, trepidanti, sbigottiti, stupidi del fiero caso. Parecchi turchi son prigionieri; il resto sgominati e in isbaraglio; e il popolo corre al tempio a intuonare il Te Deum, e col Te Deum a conchiudere quell'avvenimento; che, per ogni verso, diremo noi unico e solenne nelle storie nasitane. Le idee che sovr'esso appiccaronsi poi, non riferiremo minutamente. I cronisti del tempo lo avvilupparono, lo soffocarono in un puro concetto religioso; destarono gl'istinti superstiziosi del volgo, e allora almanacchi e novelle accastellaronsi a furia. Non fu dal valore dei nasitani, accesi in fervidi sensi di patriottismo, ma da un miracolo prodotta quella vittoria, e si parlò di una grata di fuoco trovata dai turchi a quel fonte, che indi a poi pigliò il nome di S. Cono, e di un'apparizione terribile di quel santo in atto minaccevole su le mura e gli spaldi; e i cronisti, solleciti da un canto a raccogliere tutte queste briccicche, e pigri e indolenti dall'altro a narrarci distintamente tutte le vicende e gli episodi della grande battaglia. Sopraffatti dall'idea di miracolo, non videro più in la; e di miracolo ci solluccherarono, ci novellarono sino al fastidio. Ad un aiuto superiore crediamo noi pure; crediamo che potentissimo l'ebbero allora i nasitani; ma confinar tutto nella cerchia di un miracolo; dar tutto al santo, nulla ai generosi figli pugnanti e morenti per la salvezza della patria; favellarci di apparizioni superiori, e tacere del modo onde quegli eventi inferiori si combinarono, si successero, ebber fine, — rivela tale un'apatia di animo, una miseria d’intelligenza, un affievolimento di nobili passioni, un concetto cosi sparuto della religione e dell’umanità, che ci à appenati e meravigliati sovramisura. Eran quelle pero le teoriche dei tempi, quelli gli uomini, le passioni gl'istinti; e volerne ora raccapezzare le cagioni e ragioni, chi sa quando la finiremmo; sicché ce ne passiamo senza più tornando alla nostra storia. In quegli anni medesimi, o poco dopo, delle invasioni dei turchi, talune galee di Biserta, cariche di corsari, presero terra di la del Capo di Orlando; devastarono quelle spiagge, distrussero una chiesetta di gotica architettura dedicata a S. Gregorio, che die poi nome alla riviera(4); ma non salirono in Naso, e forse perché la fama della vittoria contro i turchi, gli fece accorti che non era terra d'accoglier lor seme e lor ferocia.
Intanto moriva Pietro
Aragona e succedevagli nello Stato di Naso il fratello Antonio a 5
marzo 1555; ma l'anno 1570 a 15 novembre divideva stupidamente esso
Stato, vendendolo alle due case Grimaldi e Ventimiglia.
----- (1) V Lib., App. Gen. Lett. D. (2) GREGORIO, op. cit., Lib. VII. Pag. 580 (3) DRAGO DOLCETTA, op. cit.; CIUFFARI. Poema Sacro; Piccolo, ma.° cit.° (4) lanza, ms.°cit.°. |
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I. | ABONE BARRESI | 1109-1134 | ||
II. | GUALTIERI DE NANTES | 1134-1194 | ||
III. | MATTEO I BARRESI | 1195-1195 | ||
IV. | GIOVANNI II BARRESI | 195-1195 | ||
V. | ABONE II BARRESI | 1195-1195 | ||
VI. | ABONE DE GUERRAS | 1195-1198 | ||
VII. | FILIANELLO PISANO | 1198-1200 | ||
VIII. | MATTEO II BARRESI | 1200-1282 | ||
IX. | GIOVANNI II BARRESI | 1282-1282 | ||
X. | BLASCO I ALAGONA | 1282-1301 | ||
XI. | BLASCO II ALAGONA | 1301-1355 | ||
XII. | GIOVANNI ALAGONA | 1356-1362 | ||
XIII. | NICOLO' CESAREO | 1360-1361 | ||
XIV. | ARTALE ALAGONA | 1362-1390 | ||
XV. | BLASCO III ALAGONA | 1390-1392 | ||
XVI. | BARTOLOMEO ALAGONA | 1393-1400 | ||
XVII. | RAIMONDO XATAMÀR | 1400-1439 | ||
XVIII. | BERNARDINO CENTELLES | 1440-1441 | ||
XIX. | ANTONINO CENTELLES | 1441-1444 | ||
XX. | PIETRO CARDONA | 1444-1457 | ||
XXI | ARTALE CARDONA | 1457-1477 | ||
XXII. | PIETRO II CARDONA | 1477-1522 | ||
XXIII. | ARTALE III CARDONA | 1522-1537 | ||
XXIV. | ANTONIA CARDONA | 1537-1545 | ||
XXV. | PIETRO ARAGONA | 1545-1553 | ||
XXVI. | ANTONIO ARAGONA | 1553-1570 | ||
(1) Nella serie non si comprendono i Monasteri di Lipari e Patti, che furono primi. | ||||
(NASO ILLUSTRATA) da pag. 1 a pag. 42 |
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SOMMARIO: (NASO ILLUSTRATA) da pag. 43 a pag. 104 | ||||
§ 25. CARLO VENTIMIGLIA. Naso titolo di Conte. I Nasitani e una lettera
di filippo I. § 26. IL VENTIMIGLIA e le monache di S. Caterina. Turbolenze municipali. § 27. LA CASA STARABBA. I Posdeleon. § 28. CASA CIBO LA ROCCA. Tremuoro del 1613. Suoi danni. § 29. I CONTI COTTONE. Il Collegio dei Gesuiti. La peste in Naso. Strage della famiglia caruso. |
§ 30. GLI ULTIMI COTTONE. § 31. LA CASA JOPPOLO. affermazione solenne dei Capitoli della Città. § 32. I TEMPI DEL SANDOVAL. L'amministrazione della giustizia penale. Il Comune. Orribile tremuoto. Altri danni. Lotte dei Nasitani con il Sandoval. Fine del dominio feudale. § 33. SERIE DEI CONTI. § 34. NUOVI TREMUOTI DEL 1786 E LOR DANNI. § 35. TORBIDI MUNICIPALI DEL 1813. Ravì. § 36. TREMUOTO DEL 1823. § 37. ESORBITANZE DEL 1848. § 38. DUE ULTIMI CASI. Transizione. |
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§ 25. Carlo Ventimiglia. Naso
col titolo di contea.
I nasitani e una lettera di
Filippo II.
Dura cosa avea ad essere, ed era, la divisione di un feudo, di uno stato feudale; dura come il servire a più padroni: aggiungi la facile mescolanza di diritti, la confusione di obblighi, la possibilità di discordie, di gare ed appicchi non estranei a caratteri belligeri e principeschi, e n'avrai il concetto durissimo assai più. Di che raro avveniva quella divisione; è avvenuta, spessissimo vi durava poco. Lo vedemmo nel primo libro, e or novellamente. Naso, venduto ai Grimaldi e Ventimiglia, si riunì tosto sotto il dominio di questi ultimi; dei quali prima fu Giovanna moglie a Carlo Ventimiglia e Moncada, Marchese di Geraci, cavaliere di S. Giacomo e Gentiluorno di Camera di Filippo II di Spagna, — col quale ella prese l'investitura a 31 ottobre 1572. Carlo era di mente elevatissima; erudito, facondo, generoso; nel resto temperamento irascibile, capereccio, subitaneo e assoluto: strano e mirabile impasto, stranissima temperanza di oppositi, che, messi insieme, ti davan quella dimezzata maniera di grande uomo, che allora suoleva chiamarsi buon padrone. II Ventimiglia poi ingazzurriva una situazione splendida davvero. Deputato al Parlamento del Regno nel 1579 e 1582, fe' valere le doti del suo ingegno e la tenacita del suo carattere. Pretore di Palermo, vi fu quasi acclamato dal popolo e riverito qual padre della patria, per la saviezza e moderazione del suo governo, e per aver egli avviate e compiute grandi opere di pubblico vantaggio, fra quali la bella fonte nella Piazza Pretoriana. Venuto al dominio di Naso, ottenne dall'anzidetto sovrano Filippo II che la sua signoria pigliasse titolo più nobile, fosse elevata a maggior dignità; ed egli, per privilegio dato in Aranjuez a 20 maggio 1575, esecutoriato in Regno a I giugno 1582, era nominato Conte di Naso. Così questa povera terra toccava la suprema delle dignita feudali, allargava la sua dominazione, e da semplice baronia mutavasi in Contea. Oltre a ciò ricevevano in quel tempo medesimo i suoi cittadini uno splendido attestato su lor carattere e lor modi: veniva da tale, cui non poteva apporsi ad adulazione, soprastando a tutte passioni ed interessi, veniva, dico, dal medesimo Filippo II. Supplicato egli dai nasitani di non so che grazia, perocchè i cronisti dell'epoca non ne fan parola, ma certo perchè avesse temperato e lor gravezze e lor bisogni, e il pessimo stato di servitù, quel monarca, appagandoli pienissimamente, inviava a Vicerè Colonna una bellissima lettera, data in Lisbona il 31 settembre 1382, in cui dei nasitani favellando conchiudeva cosi: Tienendo a los suppllicantes por muy encomendados por la buena relacion que tenemos de su quietud y paclfico vievir que tienen(1). Gravi parole, accolte, com'è a credere, con entusiasmo; più gravi ancora pel personaggio che dicevale e facea scrivere; e che noi rimettiamo qui al sole, a monito eloquente di chi ci governa oggidì. |
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§
26. Il Ventimiglia e Le Monache di S. Caterina. Turbolenze
municipali.
Il
Ventimiglia s'iniziò lietamnente in Naso; si diè a vedere moderato e
sagace, pieghevole al bene, tenerissimo dei suoi vassalli. Crebbe
due giorni di franchigia al mercato di S. Cono(1); promosse la
utilissima Compagnia dei Bianchi(2); radunò nell'atrio del castello
eletto Consiglio per deliberare su la fondazione di un Collegio di
Gesuiti, a vantaggio della pubblica istruzione; e in tal guisa egli
incuorava e sollevava indicibilmente i nasitani. Attenuato parve con
lui il peso della servitù; mutato o quasi affievolito quel ferreo
istituto del feudalismo; e si sognò e sperò assai, ma invano. II
Ventimiglia vinceva ambizione e dispotismo: mirabile l'une se al
bene applicata; feroce se, all'altro congiunta, dava in
scempiaggini. Superbo egli di forti aiuti, di protezioni splendide;
uso a sprezzare e a tirare a suo grado i Vicerè del tempo, —
dimenticò, o direm meglio, guastò a un tratto la sua indole buona e
generosa: insanì, fuorviò, diè in tirannide; e di questa volle far
mostra e saggio turpissimo e ridicolissimo. Allora parve Naso come
colta da improvviso infortunio: vide cospicue famiglie scindersi in
fazioni; il clero in subuglio; il corpo dei giurati in contrasto; le
milizie urbane guardare in cagnesco; e il popolo commosso tenere da
parti diverse. L'unità degli animi, sola forza contro ogni arbitrio,
corrotta ora e spezzata, contribuiva a crescere, ad aggravare la
servitù; cresceva
animo al Ventimiglia. Al quale niuno osò muovere
parola di sdegno, niuno una voce consigliera ed amica, meno che un
frate cappuccino, avuto allora in concetto di santo(3). Costui,
sollevando il corpo emunto ed infermo per le vigilie, dal profondo
del suo misero letticciuolo, ammonì con maestoso ciglio il traviato
Conte: dissegli, “ smettesse gli odi e le inimicizie, trattasse
pacificamente coi suoi vassalli; con benignità non col rigore
s'adoperasse guadagnare gli animi loro ”. Ma il Ventimiglia,
tenendosi sordo a questi avvisi, pertinace nelle sue intenzioni
ripigliò il tremendo frate: “ presto i nasitani scuoterebbero il
duro giogo, nè senza danno; egli poi, tra mille dolori ed angustie,
uscirebbe di vita, dispregiato, aborrito ”. E fu ispirato parlare,
avveratosi poi stupendamente. — La cagione frattanto di quei
disordini, di quelle fazioni, nacque da ciò, che il Ventimiglia, non
trovato piu adatto a sue morbidezze e a suo fasto il magnifico
castello, storica ed eletta residenza dei passati signori, pensò
abbandonarlo. E fin qui nulla, meno del capriedo. Ma il capriccio
mutò in oppressione e stoltezza quando volle a sua nuova stanza il
Monastero delle donne di S. Caterina, — sorgente allora dove oggidì
è il fabbricato dei signori Cuffari-Lanza, abitato nel secolo XVIII
dal Rev. D. Ottavio Cuffari Visitatore del detto Monastero. — Ciò
increbbe alle monache, use a quelle mura già sacre da tempo
immemorabile, risonanti sempre di preci e di cantici, di
malinconiche e gravi melodie; per nulla convenienti a profano
signore, uso a imperare e incrudelire ognidì. Increbbe ai parenti
delle monache, spiacque intimamente ai Giurati. Sgomentava però la
pertinacia del Ventimiglia, e più l'indefinto potere; e i Giurati,
costretti, tacquero un momento, secondarono il fiero padrone.
Comprarono essi dallo
spettabile
Vincenzo de Romeo le case
del già Magnifico Geronimo Abati(4)),
che furon poi della famiglia Piccolo, insieme alla
Chiesa di S. Sebastiano per Lire 8287,50, tirandole tutte a foggia
di Monistero. Indi, non sappiamo in che modo e con che diritto,
Monsignore Giovanni Reitano Arcivescovo di Messina, a 29 maggio
1576, dava ordine all'Arciprete di quel tempo, Antonuzzio Vitale,
che con la sua presenza ed intervento trasmutasse le monache dal
Monastero di S. Caterina al nuovo di S. Sebastiano. Quì cominciarono
le brighe, inasprironsi gli animi. Dopo un tal ordine, venne nuovo
capriccio ai Ventimiglia: pretese i Giurati dover pagare le
case del Romeo anzi cennate; e i Giurati rispondere solennemente,
tener pubblico Consiglio, dimostrare a nome dell'Università non aver
obbligo alcuno a quel pagamento, forti di due atti del Pettinatis
(5). — Erano ragioni giuste ma secondarie queste; eran
modi che
dovean chiarire il Ventimiglia com'egli già pesava e
troppo sull'animo di quei venerandi rappresentanti il corpo
municipale; era infine una specie di protesta contro il suo
crudele e tirannico dominio.
Ai Giurati parve violenza insoffribile quell'espulsione di suore;
sacrilega se si considerano i canoni, e più l'epoca in che avveniva.
Ma il Ventimiglia, fermo nei suoi propositi, forte di milizie e di
adepti, più forte dell'ordinc strappato all'Arcivescovo, mandava il
suo dipendente Arciprete, l'Antonuzzio Vitale, a intimar lo sfratto
alle Monache, a invaghirle della nuova dimora. Ma e'furon novelle.
Le suore, a sentire, sollevaronsi, negaronsi, giurarono voler morire
in quelle mura vetuste ove già tante di loro, e per tanti secoli,
posavano in pace: dura oppressione esser quella; esse poi disposte a
patirla, a combatterla animosamente. L'Arciprete tornò mesto ai
Ventimiglia; il quale, tutto udito, smaniò, invelenì, scrisse una
pagina di fuoco all'Arcivescovo; e l'inetto prelato subito a
contentarlo, ingiungendo il detto Arciprete riaccostasse le suore,
adoperasse modi acerbi, costringessele ad uscire, se restie
scomunicarle. E a tanto destinavagli Delegati Aloisio Bacli
Arciprete di Tripi e il
Magnifico
Silvestre Fagnta di Alcara. Brutta, eccessiva scena questa pel Conte
clie s'incapricci, per l'Arcivescovo che l'appagò, per l'Arciprete
che l'eseguì, e di che pagaron la pena tutti insieme. Ma le suore,
ch'erano ai numero di 21, inesorabili sempre dinanzi a quel
triumvirato, protestarono di non uscire. Si venne quindi alle
minacce; si fe' subbuglio terribile; e infine si scardinarono, si
ruppero le porte del Monastero fra l'incondito vociare d'insana
plebaglia. Aspra era la lotta, e nerissima presentavasi negli
effetti alla commossa fantasia delle suore; di che, sedici di esse,
la maggior parte, vennero meno, invilirono, si si concitarono
vivissimamente, preferirono uscire. Esse furono: Suor Serafina
Curasi, Priorissa; Angelica Nasitano; Vittoria di Lodaro; Raimonda
Corona; Arcangela Collivà; Maria Pietrasanta; Aurelia Mercurio;
Geronima Carlo; Pauluzza Failla; Susanna Riaca; Agnese Marzacca;
Antonia Crisa; Elisabetta Li Favi; Antonina Scoto; Sicilia Ferraro e
Francesca Santaromata(6). La vittoria non era peranco compiuta;
v'era a far altro tuttavia; e il Ventimiglia, coi suoi, vi lavorava
misterioso ed alacre. Fra queste suore uscite si tentò spargere la
corruzione; e tre di esse, la Curasì, la di Lodaro, e la Santoromata,
caddero pur troppo, e vergognosamente. Tradotte appena nel nuovo
Monastero di S. Sebastiano, in presenza dei tre Delegati e del
Maestro Notaro della Corte Spirituale di Naso, il Rev. D. Francesco
Giordano, — dieron esse tremenda testimonianza contro l'Abadessa di
S. Caterina Suor Brigida Pigadaci, affermando con giuramento che
sotto il governo di costei pativan la fame, venian bistrattate con
ogni maniera di sofferenze; volerla ora processata e rimossa, e via
via. Tutte imposture meditate e fatte dire; ma il processo ebbe
luogo; fu riputato grave con tutte le buone attenuanti, e l'Abadessa,
in conclusione, spacciata. La Curasì, forse macchina motrice di
tutte queste infamie, veniva quindi eletta Abadessa nel nuovo
Monastero con patente data in Messina a 30 giugno 1576, presentata
in Naso nella Corte Spirituale dell'Arciprete a primo luglio.
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§ 27. La casa
Starrabba. I Ponsdeleon.
Morto il Ventimiglia, Giovanna sua moglie permutò lo stato di Naso con la famiglia Starrabba di Piazza. Dei signori Starrabba primo a investirsene fu Gian Francesco, il 12 gennaro 1589, il quale, tre anni poi, il dava per cagion di nozze al figlio Giuseppe, che a sua volta concedealo al fratello Raffaele. Però, mentre queste investiture e concessioni succedeansi, la casa Starrabba venia processata per usurpazioni, falsificazioni e van altri delitti. Aggravata poi di debiti, fu costretta vender Naso a Girolamo Joppolo Ponsdeleon, che pigliavane possesso il di 8 agosto 1595(1)- Girolamo fu morigerato, amante di lettere e di letterati: ma questa sua passione mostrò più altrove che a Naso. Sposò Laura Fiordiligi Ventimiglia, baronessa di Sinagra, dalla quale ebbe un figlio, di nome Antonino, che lasciava erede di tutti i suoi beni (2).
— Moriva egli in Naso a 30 settembre 1607, e veniva
sepolto nella Madre Chiesa, a sinistra della cupola, in una tomba
che avea acquistata per concessioner(3). Erra l'Abate Amico (4)
tumulandolo in superbo mausoleo; perocchè la Madre Chiesa non ha
avuto mai di questi avelli marmorei, meno nella fantasia
dell'illustre storiografo. Antonino Joppolo ebbe Naso a 13 aprile
1609. Sposò Castellana Bardi, figlia al Marchese di Sambuca; ma
tenendo egli la maggior parte dei beni in Sinagra, sua patria, vende
Naso a Giovanna La Rocca Cibo, ritenendosi il
Jus Luendi. ------------ (1) Nel ms. di Lanza, troviamo in fine, di carattere diverse, queste parole: “ Anna 1594: “ dicta terra Nasi fuit venduta per Deputatos Deputatorum Bonorum hereditariorum et statuum duti D. Franciscus et D. Raffaelis Starrabba. Banditi foris judicati, fuit venduta dicta Terra Nasi D. Heronimo Chiopilo pro satisfaciendos ecrum creditorim” (2) II testamento è in Notar Pettinatis, 2} ottobre 1597- (3) Notar Astone 29 aprile 1595- — Questa tomba, una alla cappella, venifa offerta al Joppolo dai Procuratori della Madre Chiesa, ai quali egli inviava la seguente lettera di ringraziamento, che autografa conserviamo: “ Alli molto magnifici et nostri carissimi li procuratori della Madre Chiesa della N.ra Terra di Naso. C. J. “ Molto magnifici et nostri carissimi. — Stimiamo in gran maniera la liberalità che ci usate della cappella maggiore, di quella Madre Chiesa; havendosene ricevuto l'atto del dono, e vedutosi da noi con gran gusto nostro, et della Contessa; che insieme ve lo gradimo, come di effetto proceduto veramente, da gran nobiltà d'animo e prontezza di volontà in nostro servigio. II quale procureremo d'arricchire con alcuna memoria ai posteri nella istessa cappella, per dimostratione di sì segnalata, e pietosa donatione loro. Con che salutandovi con la Contessa, per fine il Signer Dio da male vi guardi. Da Messina li 4 maggio 1595- A piacer vostro segnato. li, conte di naso ”.Ma il monumento, che prometteva in questa lettera, non venne poi innanzi! (4) Lexic. Top. de Naso. |
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§ 28. Casa Cibo La Rocca.
Tremuoto del 1613. Suoi danni.
Giovanna fu piissima donna. Potea di sè lasciar grandi ricordi a Naso; ma, o per la lontananza, o per altre ragioni, a noi ignote, vi fe' poco: volle unicamente dotar le quattro Chiese principali della rendita rispettiva di Lire 25,50 annue, per celebrazioni di messe. Giovò invece a Messina, ove fondo il magnifico termpio del Padri Teatini, il Monte Piccolo di Prestanza (1), a favor dei poveri, ed altri utilissimi monumenti. Moriva poi a 31 agosto 1639- Intanto il Conte Joppolo vendeva il Jus Luendi a Pier Maria Cibo, succeduto a Giovanna, sua moglie, nel 1612; e in tal guisa Naso passava intera sotto il dominio di lui.
Piero era di eletti
costumi; propenso al bene; adorno di svariate doti domestichie e
cittadine; e non a caso il suo epigrafaio disse: ch'egli moriva
dietro aver legato al mondo gli egregi fatti di sua
eroica virtù(2).
Decorò egli Naso di una splendida piazza con 38
botteghe, che già nominavasi da Filippo II austriaco, dopo atterrata
e ridotta a miglior forma la Chiesa di S. Demetrio(3). II 25 agosto dunque 1613, giorno di domenica, sullo spuntar del sole, fu presa Naso da sì profondo e terribile scuotimento, che parve tutta intiera fendersi, rovesciarsi e inabissare. Già alcuni mesi innanzi, quasi preludio del miserando caso, era apparsa una colonna di fuoco orizzontale sul Castello; s'erano uditi mugghi e strida e fremiti di animali nelle selve; e un sotterraneo gemito, che aggricciava intimamente: l'aria poi tenebrosa ed orrida. Però, dileguati questi fenomeni, non si bado più che tanto. Si ricordarono quindi, si spiegaron quel giorno, quel lagrimevole 25 agosto. Al ruinoso tremito cadde e precipito il maestoso tempio di S. Pietro dei Latini, e parve sradicarsi dai fondamenti, meno della cappella del Rosario, istoriata di pregevoli marmi, allora dell'ordine dell'ala, e in cui scamparono sette donne. La ruina del tempio cagionò la morte a 53 persone, 15 uomini e 38 femine, ch'erano a udire la messa dai Sacerdote Cono Corona, già presso alla Comunione, morto anche lui insieme al Chierico, un certo Onofrio; 62 restaron ferite e malconce miserissimamente. Dall'Arciprete Giovanni Vallerano fu fatto subito scavare, attraverso ai rottami e le macerie, il Divin Sacramento, e condotto nella Chiesa Madre, tre dì poi si rinvenne l'olio santo. Duecento fabbricati ruinarono; fra quali i palazzi dei Dottori Antonino Piccolo, Gian Giacomo Lanza e Cono Calcerano. Questi, giovanissimo, perì nelle pietre insieme a una sua figliolina, mentre correva a soccorrer la moglie, giacente in letto, perigliante fra le rovine(4) Le altre abitazioni patiron tutte, vedevansi rotte e vacillanti. La bella piazza con 38 botteghe, di che sopra si è detto, interamente distrutta. Il castello ba ronale, benche forte di colonne e bastioni, rovesciò in gran parte, sconvolto e conquassato nel resto. Cadendo schiacciò Grandonio Cavaliere di Troina e due servitori del Barone di S. Venere. Costui, che giaceva in letto dormicchiando, al funesto scuotimento balizò, e nudo si cacciò da una finestra, e fu salvo. Salvaronsi eziandio nelle prigioni tre miseri detenuti. II titolo della Chiesa Madre si ruppe e crollo; di che ebbe a calarsi poi per sette metri. Videsi naalconcio il gotico campanile di S. Conone; atterrato nella maggior parte il mirabilissimo Convento degli Osservanti (5); e i religiosi abbandonarlo per alcun tempo. L'Ospedale scomposto e ruinante, e gl'infermi ignudi fuggire a salvarnento. Ma ciò che crebbe il terrore e la desolazione fu l'aprirsi d'una voragine orrenda, larga un tre metri, profonda poi tanto, che non vi fu modo di trovarvi fondo, benchè e corde e massi e pali si fossero adoperati per rinvenirlo. Allungavasi dal piano del Tocco all'Ospedale; e mandava fuori denso vapore vapore bituminoso, di che l'aria facevasi crassa e nera(6): spettacolo questo che inorridì, scuorò gli afflitti abitanti, diè a temere della formazione di un Vulcano; e allora il pensiero di dover lasciare quel sito, centro di tanti e si svariati affetti ed interessi, di tante e si svariate gioie e sciagure, commosse, invill indicibilmente. Naso a vedersi in quei dì parea squallido sepolcro: sconscendimenti, precipizi, macerie, mura infrante, fabbriche facillanti; nelle vie un piangere, un disperarsi, un gemere di chi cercava il padre, il fratello, la madre, i figli, morti o feriti nelle ruine; e trovati, riconoscerli, spolverarti, baciarli, abbracciarli disperatamete (7): poi silenzio, poi deserto, poi desolazione, poi cadaveri sparsi qui e colà mezzo sotterrati, non peranco inumati, crescenti sbigottimento ed oppressione, e inumati, toccanti il numero di 103. Dei vivi pochi rimasero in quel ruinio, in quello squallore; i più fuggirono alle campagne. Ma qui nuovi orrori, nuovi spaventi: videro i monti fendersi da sommo ad imo, spaccarsi immensi e rugginosi macigni, le fontane dare acque torbide e limacciose; il mare infuriarsi, rompere in altissime spume, avanzarsi gigante al di qua della spiaggia. Parve giorno supremo quello, e così avuto. Indi passato, lasciò lunga concitazione negli spiriti, miserie molte, dolori rudi ed inconsolabili. Due anni poi, Pier Maria Cibo, giovane ancora, moriva, ai sette novembre, non senza vedere il paese ristorato e rimesso. Tumulavalo la desolata consorte, la Giovanna Rocca e Cibo, in un avello marboreo, nella Chiesa dei Minori Osservanti, di contro all'altro di Artale Cardona; e delicato poeta dava a scolpirvi sopra una iscrizione stupenda, che riporteremo a suo luogo (8). A Piero succedeva la figlia Flavia, primogenita e sola erede; la quale nel 1620 portava Naso in dote al marito Girolamo Cottone, Conte di Bauso e primo principe di Castelnuovo.
--------- (1) E’ questo Monte che deve la rendita alle quattro Chiese principali. (2) V. Lib. IV, App. Gen. Lett. A. Iscriz. LI. (3) Lo attesta il Lanza, contemporaneo, nel suo manoscritto citato, con queste parole: “Nel 1615 detta Chiesa (di S. Demetrio) nel mezzo della piazza di Filippo la sdiruparo per allargare detta Piazza endi fabbricarono un’altre chiesia per ordini di Monsignore accanto di detta Piazza più bella, che non era; e di questo fu autore il Conte di Naso Pietro Maria Cibo, et sdirupau ed accomodau tutta quella Piazza et la nobiliò”.
(4)
La sua abitazione era nel piano della Chiesa Madre. Afferman molti che in quel piano allora A caso si trovarono avere visto Da la Fissura fumo che uscia fuora, Con tal nigrezza e con caldezza misto Che l’erbe a lei vicine e terre ancora Denigrate testarno, o caso tristo Onde per l’aria i convicini allora Incendio argomentato molto tristo.
Sdegnato il sommo Iddio del gran peccato Correndo a briglia sciolta Naso ingrato!E dico poco! – che tempi avean esser quelli, non si sa.
(7) La cronaca cit.. - Nella Chiesa di S. Pietro fra le donne morte vi furono le mogli del medico Giovanni Cuffari e di Notar Pietro Calabrò (8) V. lib. IV. App. Gen. Lett. A. Iscriz. LI. |
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§ 29. I Conti Cottone. Il
Collegia dei Gesuiti. La peste in Naso. Strage della famiglia
Caruso.
Girolamo Cottone fu mite animo; s'invaghì di lettere, e molto ebbe a cuore gli artisti: ne fu anzi passionatissimo. Nei primi anni del suo dominio, verso il 1626, chiamò da Messina Gaspare Camarda, egregio pittore, gli diè a lavorare un S. Girolamo, che riuscì mirabilissimo, e di che adornò la Cappella da lui eretta nella chiesa del SS. Salvatore, ove si venera oggidì. — La contessa Flavia, sua consorte, lo si tenne poi addietro nei beneficare i nasitani, vinselo anzi e a mille doppi. Anima bella, pia e generosa, sentiva il bene per tutti, e sovratutti per questa terra, così forte e indomita ai dì della sventura. Onde a lasciarle di se memoria eterna, si adoperò, si studò costantemente. Fe' vive istanze ai P. Nunzio Vitelleschi, Proposito generale dei gesuiti, perchè si fondasse in Naso un Collegio di quei Padri a insegnarvi filosofia e letteratura; e quel Collegio non potuto ottenere col Ventimiglia, si vide ora con la insigne contessa. S'ebbero i Padri Vincenzo Raimondo catanese, Vincenzo Bottone da Messina, e Antonino Panitteri del Salvatore. Destinò loro, la Cibo, il vecchio Monistero di S. Caterina, e intanto preparavane un altro alle suore più nobile e piu austero, quello che esiste oggidì, e di cui favellererno piu opportunamente in appresso. Ma i Padri elessero abitar l'Ospedale; e qui convissero insegnando e affinando la studiosa gioventù, sino alla morte della contessa; la quale avvenuta, e fu il 5 febbraio 1632, senza che la magnanima donna avesse potuto colorire compiutamente il suo disegno, — di sistemare cioè il Collegio in apposito fabbricato, — si ritirarono i Padri e si sciolse la residenza nasitana(1). Morta Flavia, compianta da tutti con affetto filiale, Girolamo, suo consorte, vi sopravvisse dolentissimo per sei anni. Deputato del regno e Generale delle galee di Sardegna e di Sicilia, periva poi di ferita in un viaggio intrapreso per quell'isola a 4 aprile 1638(2).
In
questi tempi toccò Naso, terribile flagello, la peste. Sviluppatasi
essa in Palermo per una nave venutavi carica di arazzi dall'Africa,
subitamente per tutta l'isola si diffuse. In Naso portolla Marcello
Caruso, notaio. Uomo stitico e gretto, proprio di quelli che ove non
trovan guadagno li non vedon nessuno, comperò alla capitale molti di
quegli arazzi, che barattavansi a vilissimo prezzo; e lieto di tanto
acquisto ei si mutava lietissimo in patria. Però, due o tre dì
appresso, periva di peste miserissimamente. Questa fu scintilla che
secondò gran fiamma. Uditolo i Nasitani, per altro già concitati,
gli negaron luogo di sepoltura; inumaronlo lontano lontano in un
podere di lui nominato Chacì; il serrarono attorno di muri e di
pruni vietanti ad ognuno l'accesso; pigliaron quindi delle
precauzioni. Ma tutto inutile: il male via via infierì; già molti
villici si videro con sbigottimento vaganti per la campagna, presi
da marciosi bubboni, smunti, ebeti, striminziti, fuggire dalle
proprie abitazioni a liberar le famiglie. Fu allora in Naso un
chiudersi, un serrarsi, un premunirsi, un indicibile timore. Si
pensò intanto a costituir Governatore e Capitan d'Arme l'illustre D.
Francesco Lanza, Barone di Ficarra; che tolto, e non si sa perchè,
vennegli sostituito Girolamo Mastrilli, marchese di Tortorici,
allogatore in quel tempo dello stato di Naso. Distinto cavaliere,
amato dal popolo, seppe meritarsi la stima di Filiberto di Savoia,
il gran principe e vicerè, e del Cardinal Doria, dai quali ebbe
comunicata piena autorità in quel frangente. Avuta egli quella
carica, pensò alla famiglia Caruso, precipua cagione del suscitato
male; e con l'accordo di Luca Giordano, Gian Giacomo Couades,
Domenico Scaffidi, e Gian Vito Piccolo, Giurati, vietò ogni
commercio con la medesima(3). Fe' metter su un lazzaretto in Bazia,
al fonte Pera, o in quelle vicinanze probabilmente, il fornì di
arredi, di farmaci e di monatti, destinandogli una guardia di 20
ufficiali. In quella ecco il popolo sollevarsi; e tempestando,
supplicare(4), perchè si ordinasse alla famiglia Caruso di
ardere i panni tuttavia rimasti, tuttavia conservati e l'autorità
giuratoria tosto aderirvi, e ingiungere la Caterina, moglie al
defunto Notaio, di lasciar la casa, di ridursi coi suoi al
lazzaretto. Però l'improvvida donna si ostinò; pochi di quei panni
distrusse, di che ebbe a pentirsene subitamente e amaramente. Vide
ella spirarsi nelle braccia e su gli occhi Andrea, Vincenzo, e
Francesco, suoi figli; poi Ippolita Caruso, sua nipote; infine
il domestico Francesco di Giovanni: essa poi, più che viva estinta,
condotta dai monatti al lazzaretto. Questo, intanto, per esser
levato in vicinanza alla città, dava agio ed incitamento a facili
congressi tra i sequestrati ed infetti e loro amici e parenti;
ondechè, il Governatore Mastrilli, a torre il cimento, facealo
trasferire a un miglio da Naso nella contrada Valentino. Poi egli,
insieme ai giurati, eliggeva una Deputazione di salute, cornposta
dai Dottor Francesco Couades, Mario Piccolo, Gio: Francesco Corona,
Blasco Galbato, Pietro Riaca, Gio: Antonino di Albergo e Giovanni
Martino, perchè si adoperasse in prò della pubblica salvezza. Nè
basta. Sceglieva eziandio a medici della Deputazione e
sopraintendenti universali i Dottori Antonino Mercurio e Antonino
Cuffari; quattro altri medici destinava ai quattro quartieri
principali della città, cioè: quello della Madre Chiesa al Dottor
Girolamo Piccolo; quello di S. Giovanni al Dottor Gian Giacomo
Cuffari; quello del SS. Salvatore al Dottor Carlo Germanà, e quello
di S. Cono al Dottor Giuseppe Galbato. Nè basta. Nominava infine due
chirurgi, Pietro Ricca e Francesco di Martino, perchè stessero a
discrezione di tutti, e accorressero solleciti la ove più rilevava
il bisogno. Poderosa attività, grande intelligenza, solerzia
mirabile in tempi che ci piaon tristi, e non sono; esempio d'avere
innanzi e imitare; patriottismo stupendo, che ora, in minima parte
seguito, farebbe di allora splendidamente assai più.
-------- (1) ANGRILERA, Opere. Tom. II ad ann. 1630, Cap. VII. (2) Nel citato manoscritto di Lanza trovo di carattere diverso le seguenti parole:
Anno 1638 die 4 Apriliis vulneratos perijt D.
Heronimo Cottuni pater D. Emanuelis Cottuni.
(4) Item supplica lu populu di communi cunsensu a
fari bruciari li robbi chi lu defuntu Notaru in ipsa casa portò da
Palermu, et chiamari la dicta Cattarinella moglieri dello dicto
Notaru et diri ad illa di disabirari et chiudiri la casa ovi moriulo
dicto Notaru pienu di maluri etc. (Att. Pubbl.) (6) Fu a 17 novembre che il Mastrilli sciolse il Cordone con atto provvisionale, confermato dal Presidente a 8 gennaro 1625. (7) Lo afferma egli stesso nel citato Poema, Cant. 3° stanz. 40. |
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Morta la Contessa Cibo, successe nello stato di Naso il figlio Emanuele, Principe di Castelnuovo. Prese egli due mogli: dalla prima, e fu la figlia del Duca di S. Giovanni, non ebbe prole; dalla seconda, Maria Valguamera dei Conti di Asaro, ebbe un bimbo, che tosto moriì. Il suo governo passo senz'avvenimenti. Usciva poi egli di vita a 21 luglio 1645, contando appena ventitude anni(1). Succedevagli Felice sua sorella. Ma costei, giovinetta ancora, rifuggente ai clamori del mondo, pensò forse che feudalismo, in qualunque modo temperato, dovea sempre suonare oppressione; pensò che la donna, fonte di molli e sereni affetti, di pure e segrete dolcezze, era nata a tutt'altro che ad opprimere ed incrudelire. Sicchè, cedendo Naso generosarnente a suo cugino Scipione Cottone, toglieva il velo nel chiostro di S. Caterina in Palermo. Scipione fu uomo culto; ambasciatore per molti anni dei re d'ltalia; a 20 anni Maestro Razionale del Real Patrimonio. Avuto egli Naso, vi promosse opere di pubblica utilità, ma durò poco; avvegnacchè la famiglia Joppolo, con replicate inchieste, volle, e poi ebbe, venduto quel dominio da essa un tempo alienato e nel quale rientrava l'anno 1660(2). ------ (1) Veniva tumulato nella Chiesa degli Osservanti. (2) CUTELLI, De dinat. To. I, Disc. 2, Part. 6; CASTILLO, Tom. III. Dec. 228.
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§ 31. La casa Joppolo. Affermazione solenne
dei Capitoli della Città. Banditi giustiziati. Tremuoto del 1693 e
suoi guasti. Fine del dominio Joppolo.
Primo di questa casa fu Girolamo, dei Ventimiglia e Basucca, nominato Duca di Sinagra da re Filippo IV ai 16 settembre 1654- Ebbe il possesso di Naso a 14. aprile 1661, sposò Giuseppa Antonia Joppolo dei Duchi di S. Antonio; governò con sapiente giustizia dapprima, deviò poi probabilmente, avanzando pretensioni feudali non mai vedute, nè osservate. Di che i Giurati di allora posero in campo i Capitoli della Città(1), contenenti gli usi e le consuetudini immemorabili, una specie di diritto pubblico insomma, sanzionati sin dal 1610; e nella Madre Chiesa, in una festa solenne, il 5 giugno 1662, — come era costume, — Gio: Francesco Galbato, Giurato seniore, presentavali ai Joppolo, che giurava di osservarli e farli osservare. Morto Girolamo e successogli il figlio Diego, Menino della regina di Spagna e Cavalier di S. Giacomo, a 6 dicembre 1685, — quei Capitoli furono novellamente frugati e messi in chiaro per ricorso avanzato dall'illustre Ignazio Perlongo alla Corte del Real Patrimonio. La quale, con sue lettere osservatoriali date in Palermo il 13 dicembre 1689, sanzionavali per la seconda volta sotto pena di ducati mille, d'applicarsi ai R. Fisco. — Fu questo un sintomo gravissimo di emancipazione. Diritti non più osservati, negati anzi, tornaronsi ora a vita nuova; si circondarono, si confortarono d'inestimabili garentie: e di che natura eran essi poi? — Tutta antifeudale, tutta intollerante di schiavitù, tutta tendente a metter dighe ed abissi tra signore e vassalli, tra feudo e Comune, tra giurati e padrone: tutta preparante un avvenire assai diverse del passato; perocché quei diritti eran principio di riforma, di progresso; e il progresso, principiando, non sosta, va oltre, s'avanza indefinitamente. E cosi vedremo da qui innanzi, ammireremo sempre più. In quei Capitoli si limitarono, si assottigliarono le prerogative del Conte: “si rivendicò il diritto di accusa ai cittadini, ai privati, pei danni del bestiame nelle Contrade Cagnanò, Monastria, Capo di Orlando, Lia e nei punti messi a cultura (Cap. I°): si rivendicò quell'altro di legnare nei boschi baronali; di vender le legna non solamente e ristrettamente all'opificio degli zuccari in Malvicino, ma in Naso altresì (Cap. 2°); si tolse al Conte il diritto di far carbone nelle contrade sudette (Cap. 3°): si affermò il diritto di pascere gratuitamente nelle contrade medesime (Cap. 4.°) ' si chiariron contro l'arbitrio le pene pecuniarie da infliggere per le irruzioni del bestiame nei feudi Muscale e Masseria (Cap.5°): si dichiararono esenti di tassa gli animali condotti fuori del territorio (Cap. 6°): si determinò la tassa su la seta grezza (Cap. 7°): si affermarono e si distinsero i privilegi dei cittadini e del Conte su le acque (Cap. 8°): si tolse ai Conte il diritto di vietare il disboscamento e bonificamento delle private proprietà (Cap. 9°): quell'altro di mandare ad uccider galline nei poderi altrui (Cap. 10): quell'altro di richiedere illimitati i servizi personali, riducendo questi ai soli mulini e trappeti (Cap. 11): si riconobbe nei Giurati il diritto di eliggere il pesatore di sete grezze, e di spendere in limosina, o in bene delle Chiese, il prezzo della gabella dei pesi (Cap. 12°): quell'altro di determinare le competenze degli acatapani su le contravenzioni dei pesi medesimi, su la vendita della carne e del frumento (Cap. 13°): si limitò l'illimitato potere del Conte su la gabella mulini: si stabilì dover egli darli in fitto a più individui e non ad un solo; non essere i vassalli obbligati sempre e in tutte guise a macinare nei medesimi (Cap. 14°): si determinarono le costumanze su l’estrazione dcll'olio (Cap. 15°): si proclamò solennemente essere i cittadini liberi di estrarre l'olio dovunque e in qualunque modo (Cap. 16°): si riconobbe il diritto nei privati di far pascolare gli armenti lungo quel tratto di terre che, dalla Contrada Trabocco, presso al Capo di Orlando, va alla marina verso Merendino, alla Contrada Caria, a Portella delle Malvizze per tutta la parte di Levante; e il diritto esclusivo dei giurati di dare in gabella tutte queste terre, e di impiegar la rendita al soddisfo delle tande e delle pubbliche gravezze (Cap. 17°): poi si rivendicarono altri diritti dei giurati su i bestiami esteri (Cap. l8°): sul piano di Bazia (Cap. 20°): e dei privati su i propri fondi (Cap. 22°): e finalmente il modo di procedere all'esecuzione forzata contro dei cittadini ”. — Insommma, se le leggi son la morte dell'arbitrio, questi Capitoli furono in Naso la stasi del feudalismo; il quale orarnai smunto, languido, infievolito; li vedremo da qui a poco dar l'ultimo lampo, tentare di rinvigorirsi, e morire. Anni dopo questi pubblici avvenimenti (1691), queste splendide affermazioni di diritti, queste limitazioni di rivilegi, venivano contristati i nasitani dallo spettacolo della forca. Da molto tempo taluni assassini eransi rifuggiati nel Valdemone, commettendo infamie e nefandezze enormissime. Colti finalmente nelle vicinanze di Naso da
da Sebastiano Giusino, Maestro Razionale del Regno e
Vicario Generale, furono ivi condotti. Il Giusino prese stanza nei
palazzo Aglì, esercitò giustizia severa contro quei manigoldi, ne
condannò gre nel capo; e la forca fu eretta dinanzi la fabbrica del
Dopo la forca, atterriva Naso novellamente il tremuoto. Avveniva esso il giorno 11 gennaio 1693; vi durava tanto che le fabbriche piegaronsi e dimenaronsi come canne che per vento si muovano. Di che ruinarono parecchi edifici, patirono tutte quante le abitazioni, il Monastero restò così pericoloso che le suore abbandonarono, e andarono a cercar clausura nella piccola Chiesa di Nostra Signora della Grazia, fuori l'abitato, dimorando quivi giorni 25: era allora Abadessa la Rev. Suor Angela Piccolo, che moriva poi in quell'anno medesimo. La Chiesa di S. Sebastiano si distrusse, e fu mestieri rifarla: fra lo stupore e sbigottimento universale, le gentildonne nasitane scapparon per le vie e le piazze “senza manto, — dice la citata Cronaca del secolo XVIII, — cosa che in Naso in altre occasioni sarebbe stimata mostruosità ”. Crebbe allora il terrore la nuova della ruina di Catania, e in Naso non vi rimase persona: tutti, al solito, si fuggirono alle campagne. Di là a pochi giorni i tremuoti si successero, si continuarono: il mare cominciò a fremere così tempestoso, che facea tremar gli alberi e i cuori assai più. Quietato il mare, prese a urlare la terra con sotterranei tuoni e fragori: parve volersi avverare una conflagrazione vulcanica, una rivoluzione degli elementi. E che i Vulcani fossero causa primigenia, anzi sola, di quel cataclisma, si raccoglie da ciò, che, cessati i tremuoti, e fu dopo Maggio, si trovarono in sul mattino l’Erbe e le vie nelle campagne, le case e le strade in Naso coverte di minutissima arena lucidonericcia, simile a quella dell'eolio Vulcano. Intanto, surto l'anno 1725, il Conte Diego Joppolo moriva(e) lasciando varie figliuole, avute dal suo terzo matrimonio con Isabella Vanni vedova del Marchese dei Magnisi. La primogenita di queste, di nome Giuseppa, era l'erede di Naso(4). Pigliavane investitura a 14 giugno 1729. e l'anno 1735 facevasi sposa a Giovan Diego de' Sandoval, Principe di Castel Reale, Marchese di S. Giovanni e Duca di Sinagra.
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1) V. Lib. IV, App.
Gen. Lett. F. |
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§ 32. I tempi del
Sandoval. L'amministrazione della giustizia penale. Il Comune.
Orribile trernuoto. Altri danni. Lotte dei Nasitani col Sandoval.
Fine del dominio feudale.
I tempi in cui il Sandoval veniva in Naso cran difficili, perigliosi assai più. Gli abusi, le violenze, l'ignoranza delle leggi, allagavano a modo di secondo diluvio nell'isola tutta quanta. Simile a fiammella che, pria di morire, raccoglie le forze estreme, il feudalismo raccolse le sue, cercò sollevarsi e vincere quel senso a se restio, già predominiate popoli e castella: invano però; avvegnacchè così operando, esso affrettava il suo decadimento. Il Sandoval, com'è naturale e probabilmente, si pose su questa via, e cogli altri signori tentò anche lui rifarsi un tanto: diè in abusi, non li volendo forse, pentendosi fors'anco, ma era necessità. L'abuso però non è mezzo onde si possa un istituto sostenere, piace ai pochi, a quelli cui giova, e che non posson nulla; spiace ai molti, e son quelli che posson tutto. Fra gli abusi di questi tempi spicca l'amministrazione della giustizia penale.(1) Disordinata, guasta, corrotta, svegliò le cure degli Avvocati Fiscali c dei Viceré; i quali, sgomenti, confessarono esser ella quasi reo strumento divenuta, massime nelle Corti baronali e capitaniali, ove, come in Naso, il Conte godea del mero e misto impero. Vi provvidero più tardi diramando le Istruzioni e Circolari del 1787, intese a stringer l'arbitrio e frenarlo: e fu grave fatto; un altro passo e fu l'ultimo, contro le prerogative feudali. — Queste istruzioni non sono di certo un gran monumento legislativo, non segnano dal lato scientifico un progresso, bensì un ritorno al passato, alle Prammatiche dei Viceré, ai Capitoli degli Aragonesi, e risentono della turgidezza e barbarie di questi tempi. Pensate voi! — V'è in esse mantenuta nell'organismo delle prove la tortura, ristretta alquanto, limitata è vero, ma tortura! Gl'indizi a cui ella è subordinata, vi son determinati per cinque modi, cioè: ad inquirendum, ad carcerandum, ad jubendum, ad torquendum et ad condemnandum. Se gli indizi si assodano, o il reo confessa, il Giudice profferisce 1'interlocutoria fiat processus, la quale è esclusiva competenza dei Giudici presso i Signori che godono del mero e misto impero. Vi è consacrata la libertà provvisoria pei delitti infra la relegazione, mediante plegeria, e con l'ingiunzione de se presentand;, un po' di carità cristiana pei detenuti ristretti nei Damusi, specie di orride secrete, ai quali il Giudice non può per qualunque delitto far mancare i cibi e il vino, nè ridurli col solo pane, od affliggerli con due paia di ferri, come in passato. V'è una cotal riordinazione di magistrati(2), un andamento logico segnato ai processi, una qualunque divisione di delitti e di competenze, un certo regolamento sui gravami, su le declinatorie di foro, su le spese dei procedimenti e via via. Coteste istruzioni insomma, se non eran grandi leggi, ne avean la virtù: non potea ora con esse giudicarsi ad arbitrio, secondo concetti tirati da tutt'altro che giustizia. Però quanto a Naso esse furon pubblicate assai tardi, imperocchè, come vedremo, il dominio feudale già s'era ivi abbattuto; e, moribondo nelle mani del Sandoval, accennava il suo vicino sepolcro. L’autorità giuratoria affermando se stessa, sostituiva il Comune al feudo, la città demaniale alla terra baronale, di che era smania grande e grande operare in Naso nel riacquistar diritti al Comune, nel sostener cause lunghissime c impigliatissinae(3). ----- (1) V. Istruzioni per regolare la Giustizia nelle occorrenze delle materie criminali. Palermo 1787. (2) Ecco qual'era l'ordinamento giudiziario sotto il Sandoval, come si desume da un atto di elezion in Notar Pizzino (l settembre 1781). Un Capitano di giustizia avea Capo d'Orlando per decidere le controversie di minimo valore, intendere alla polizia e alla istruzione dei processi; un Giudice civile e criminale per l'alte controversie civili e pei reati. Un Capitano di giustizia e un Giudice civile e criminale parimenti avea Naso. Capitani e Giudici decidevano in prima istanza: in seconda gradu appellationis, decideva il Giudice, detto di Appello, residente in Naso, centro e capitale della Signoria. Rappresentava la giustizia nei suoi pubblici interessi, — ci si passi la frase, perché a quei tempi avea anco i privati, — l'Avvocato Fiscale, che risiedeva del pari in Naso. Capitani, Giudici e Avvocato costituivano la Magna Curia Capitaniale. (3) Tra queste notiamo quella pel nonativo di scudi 65.000; il quale secondo i Capitoli di Re Giacomo e degli altri Re Aragonesi, fu imposto a Naso nel Parlamento generale del Regno tenutosi nel 3 luglio 1645, V. App. Gen. Lett. G.
E già la natura parve preparare ed affrettare anch'essa la fine del feroce istituto, eccitando gli animi, concorrendo a crescere i mali, a renderli più intollerabili, coll'orribile tremuoto successo il 9 maggio 1739. Fatale assai più di tutti quelli avanti lamentati, veniva esso preceduto e seguito da fenomeni straordinari, terribili, non mai veduti. — A 4 maggio, su le ore 22, dilatavasi dal Vulcano una bianca nuvola, che muggiva e scoppiava continuamente, simile a batteria di moschetti splodenti in breccia. E di vero, avvicinandosi alle nostre contrade, fu vista scagliar pietre enormissime, una delle quali trovarono ancor calda su la spiaggia di Scinà, del peso di otto libbre. E già prima, a 29 marzo, erano stati commossi i nasitani da un cielo, verso tramontana, dipinto di un eccessivo rossore, morente nel tetro, e da larghe nuvole, sfaldantisi a mo' di palme, di colonne e di travi infuocatissime. Ed ecco poi a 9 maggio, su le ore 18, tremar la terra per due lunghe scosse, che da lì a due minuti si replicarono con impeto maggiore, commuovendo il suolo e agitandolo furiosamente. Continuaronsi lungo il giorno e nella notte susseguente. Poi il 10, alle ore 21, ne avvennero cinque altre, e su le ore 21 e mezzo, una di sì veemente succussione, per lo spazio di un minuto, che crebbe lo spavento e la universale ruina. II 15 finalmente incalzarono, ingagliardirono, si resero cosi frequenti, così terribili, da sembrare il finimondo. Che non provarono, che non videro, cbe non. patirono gli infelici nasitani, allora sparsi a villeggiare nelle campagne?(4). Aprirsi a ogni piè sospinto scure voragini e rinchiudersi incontanente; montagne sublimi dimenarsi, sparire, rinascere in. altri punti, sollevarsi colline a mo' di tempestose onde di mare; sparire antichissime fontane e apparirne di nuove, e molte delle antiche dar acque torbe ed arenose; fendersi enormi macigni e scagliarsi per aria e rotolare nei fondi delle valli con orribil fragore; la terra istabile, franante, travolta, trarre inauditi fragori dai suoi abissi; il sole sorgente senza raggi, scuro, cinto di un'aureola di sangue, spaventoso a mirare, un'aria crassa, sulfurea, bituminosa, scagliarsi a onde da ogni lato a soffocar uomini e nimali. Molti in quella universale congestione degli elementi, in quelle angosce intime e tremende della natura, patirono deliquii di cuore, convulsioni di viscere, e stravaganti sintomi per la rnancanza e travolgimento degli spiriti; molti instupidirono, perderon l'udito e la voce per alcun tempo: in tutti poi una ansia indicibile di morire, di sottrarsi subitamente a quel funesto spettacolo, a quel perpetuo soggiorno di miserie, a quel teatro d'ineffabili terrori. In Naso la ruina fu immensa. Si resero inabitabili il Convento dei Minori 0sservanti, l'Ospedale e il Monistero: patiron fortemente il Monte di Pietà, la Chiesa Madre cui si spostò la facciata, e con questa spezzaronsi tutte le belle cornici di pietra lavorate a disegno che la decoravano maestosamente: si ruppe la base di una colonna; la sacristia e l'Oratorio precipitevoli. Nella Chiesa di S. Pietro, slogati i pilastri del campanile, conquassati gli archi maestri del titolo, scomposta la cupola, distrutta la sacristia. Nella Chiesa del SS. Salvatore la prospettiva staccata, offeso il titolo e le volte; donde cadute delle grosse pietre ruppero le lapidi marmoree di alcune sepolture(5). Nella Chiesa di S. Cono conquassata la sacristia per la violenza di un muro precipitate su essa, desolato l'Oratorio, guasti il bellissimo campanile, e l'organo; scommossa una colonna. Sofirirono eziandio e gravemente la Chiesa degli Angeli, il campanile di S. Sebastiano. Nel Tocco, — dice la Cronaca del secolo XVIII — luogo di gentil conversazione, si aprì lunga crepatura, ricordando quella del 1613, con terribile avvallamento di terreno. Porta Piazza fu necessario rifare in maggior parte e in miglior modo. La casa Piccolo a S. Sebastiano cadde per metà(6), e con essa varie altre abitazioni. A sì universale ruina la pallida e tremante popolazione, tra il fremere della terra e il turbinio degli edifici crollanti, con le immagini del Crocifisso della Madre Chiesa, di nostra Signora del Carmine e del Patrono, traeva penitente in lugubre processione a Bazia. Qui di contro alla Chiesa di S. Leonardo caduta anche essa come quella di S. Spirito, si rizzarono altari, si celebraron messe, si pregò e si pianse lungamente. Spettacolo commoventissimo fu allora il veder donne svellersi le chiome, nudarsi degli anelli e delle gioie, deporli ai piè del Crocifisso e della Vergine Santissima: veder uomini lasciar gli odii, riconciliarsi, cercar la pace; e i sacerdoti confusi, balorditi, non sufficienti a ricever le colpe di quei numerosi infelici, cercanti conforto a tanto esterminio nella speranza e nella quiete di lassù. Dalle campagne su l'alba, durante il giorno, la sera, torme di contadini e contadine, lasciate le cure dei bachi, vedeansi salire lagrimando, implorando, cercando uffizi religiosi. Le confratrie, gli ordini regolari, e talune vaghe giovinette dal capo sparso di cenere, incoronato di spine, miraronsi avviarsi in devota processione verso nostra Signora delle Grazie, verso i Cappuccini, empiendo l'aere e i campi delle solenni querimonie del salmista. Venian seguitati indi dal clero e dal popolo, conducenti le sacre immagini per tutta quella campagna. Doloroso fu il vedere le suore di S. Caterina, pallide e silenziose, al numero di 30, scortate dall'Abadessa Suor Concetta Calabrò, e dal Luogotenente di Arciprete Pietro Drago e Dolcetta, il biografo del Navacita, traversare Bazia, avviarsi a dormire in un paviglion di campo, presso a un'aia di Cono Monastra, di la dei Cappuccini; e il giorno dopo, vicino all'eremo della Grazia, metter su un ricinto di tele e un altare, soggiornandovi entro per giorni 35- La fama di tante miserie volò oltre, giunse a Messina, commosse tutti ovunque fu appresa; e l'Arcivescovo di quel tempo, Tommaso de Vidal, inanimiva poi gl'infelici nasitani con una lettera pastorale, spirante conforto e rassegnazione. A 19 maggio quietò finalmente la terra; e il popolo coronato di spine, avviavasi colle sue imagini sacre, col clero e cogli ordini regolari alla Chiesa Madre, ove s'udiva una fervorosa omelia del ricordato Pietro Drago e Dolcetta, mesta conclusione di quel rnestissimo avvenimento. I mali però seguitarono; che non camminan mai soli, ma in compagnia, e godono avvicendarsi, seguirsi scambievolrnente. A quelli dei trernuoti ne successero ben altri. Nei primi di giugno di quell’'anno (1739), in sul tramonto, fu Naso avvolta da una nube sulfurea, antimoniosa, nerissima poi tanto che vietava gl'individui si fosser veduti l'un l'altro(7). Dal novembre al dicembre venne giù tanta e si ruinosa pioggia, non interrotta, che trascinò seco 13 case, già per altro scosse e abbattute dal tremnuoto. Pose l'apice a tanti guai un impetuoso vento di mezzogiorno e sirocco, spirato su la mezzanotte del 25 gennaio 1740- Durò violentissimo per 24. ore; tentò sradicare il tempio del SS. Salvatore, cui fe’ cedere ed allargare la prospettiva assai più che non era, e commosse due archi della nave; spezzò due piramidi del campanile della Chiesa Madre; trasse, involse in un turbine tegole, tetti e alberi secolari: parve il paese, in un punto, voler subissare e finire.
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Le memorie del periodo Joppolo, le venerande sembianze del Perlongo e del Galbato, tornavano ora a sedurre potentemente. E il Sandoval, fingendo o pur non volendo, s'adoperava siccome inconsapevole di siffatto spirito pubblico. E a dar copia di sua potenza indomita, sicura, spavalda, inflessibile, niegò i Capitoli della Città, non volle saperne, non li giurò, — volle aboliti i preziosi diritti da quelli sanzionati in pro' dei cittadini, volle che il feudalismo tornasse colla sua cuffia trinata, colla sua muffa, col suo cane ai piè, proprio come ai tempi di Ruggiero il gran Conte. Addirittura ai Sandoval era montato il capogiro! Ed ecco un bel dì fars'innanzi un giovine: vestiva un mantello azzurro alla spagnola, calzone nero stretto a ginocchio da sfarzose frange di argento, coturni dalle fibbie d'oro, e toccava i 24 anni. Ricchezze godea di poderi estesissimi, perocchè coll'ala dell'occhio, meno poche interruzioni, ei potea dominare liberamente quasi dal Timeto ai Fitalia, il più bel tratto dell'agro nassense, dicendo: e mio! — Nobili i natali e per le armi e per scienza di leggi, allegoricamente significati con araldica bizzarria dallo stemma di famiglia(8); — nobilissime le tradizioni. Egli era Gaetano Piccolo. Scorreva in lui lo spirito dei Perlongo, dei quali avea raccolto l'eredita e lo splendore. Si ammiccarono col Sandoval e fiutaronsi, misurandosi a vicenda. Il Sandoval ebbe a impensierirsene, perocchè forse videsi poco ai confronto. Pur voile tentare l'impresa di umiliare il Piccolo: — questo messo giù, — pensava fra se, — ogni altro ostacolo è nulla: sarò temuto, sarò inespugnabile. E al Piccolo, vago di caccia, arrivano due bravi levrieri commissionati in Marsiglia. Traendoli seco nei primi giorni desta la curiosità e l'attenzione di chi li vede, e di quei levrieri poi si paria e si dice in tutti i convegni. E tosto al Sandoval entra la fregola di averli, e al Piccolo vien di rimbecco quella di negarli. Una negativa, e a un Conte del carato del Sandoval, era come a dire una sfida, e la matassa si arruffo di tratto da non trovarne più il bandolo. La sfida fu accettata. Il Sandoval sguinzaglia i suoi armigeri: van difilato in casa Piccolo; e, nol trovando, con astuzia dai familiari ottengono i levrieri, che recano lietamente all'audace Signore. Arde di sdegno il Piccolo, a cui subito il Conte minaccia le famose pene al suo arbitrio riservate etiam jure consuetudinario; ma giorni dopo lo incontra il Piccolo di mezzo alla Corte Giuratoria in pubblico passeggio, preceduto dagli armigeri, seguito dai servitorame, e... dai cari barboni! — II sangue fluì copioso alla testa del giovine patrizio, vacillò un momento, esitò, ma tosto gridando: largo! largo! trae dai fianchi le rituali pistole e al cospetto allibito del Conte fredda incontanente su la via i due amati levrieri. Scommetto che la Corte Giuratoria, come una vedova a trent'anni, ebbe a gioire in cuor suo del funesto accidente; ma si afrettò a tornare il Conte sconcertatissimo in Castello atteggiandosi alle solite condoglianze, ai consueti lamenti, fors'anco a nome del solito popolo. Il fatto, che avea in sè dello straordinario, del drammatico se vuoi, si divulgò, si diffuse subitamente: ringagliardì i cuori più timidi, rinvigorì gli spiriti più fiacchi, diè nuove speranze, più fiero ardimento dell'avvenire. In quel tempo la Sicilia russava nel più fitto feudalismo, nè per anco la Francia si era sollevata ad abbatterlo recisamente: era appena il 1770! — Chi pensava, chi presumeva ancora scuotere il giogo del proprio Signore? — Ma questo appunto crebbe più lena e più coraggio; e fe' al Piccolo più singolare e più santa l'opera che da semplice ed arcano desiderio, per una imprevedibile occasione, vide subito tragittata sul campo della realtà. Onde a ragione di lui ebbe a dire l'illustre Nascè: dynastarum potentia novo bxempio oppugnata! (9). E al Piccolo si strinsero con fede immutabile il giureconsulto Mario Drago Martinez, e i fratelli di costui Cono e Giuseppe, e a tutti e quattro fe' quindi bordone Giuseppe Lanza e Cuffari: nobili cuori, richchi e generosi, splendidamente audaci, patriotti tutti. Naso fu scossa, agitata, allietata di vita nuova. La indolenza, il torpore, l'abituale silenzio, il malinconico aspetto della servitù poco a poco dileguarono. Al Conte cominciò a parlarsi svelto, risoluto, indipendente. Si cominciò a sprezzarne gli ordini, a parodiarne i Decreti in un modo veramente locale, che sa dell'atellano e del fescennino. E i Decreti in parodia si mandarono a lui proprio... sostituendosi al Conte l'Asino, e alle armi della signoria una testa di ciuco, e al Segretario della Corte il guattero da cucina e il maniscalco del Sandoval(10). Lo scandalo divenne popolare, e il frizzo pungente del volgo assalì anch'esso il poco esperto Signore. Preparato in tal guisa lo spirito pubblico, il Piccolo pensò, — a prevenire nuove sciagure e nuove tirannidi, — di rompere l’arma più feroce del Sandoval: il mero e misto impero; e, confortato dai suoi nobili alleati, dal fuoco latente contro il feudalismo già covante nella Corte di Napoli, auspice il Ministro Tanucci, — va a Ferdinando IV. La lotta ebbe a durar lunga, poiché quel Sovrano, nell'argomento dei Baroni, crede necessario attenersi a una politica fina, sottile sottile, ipocrituccia e color di rosa. Che voleali spacciati non è dubbio: a che ci stava dunque quel terribile Tanucci? — Ma alla conclusione si dovea usare un po' di forma tirata a garbo, un po' guanti alla Pompadour. E si sa che una impressione profondissima destarono le istanze del Piccolo nella Corte: un giovine patrizio, di paese in fondo a una Sicilia dormiente nel servaggio, ove suonava da mattina a sera l'eterno nihil de Principe, parum de Deo, spingersi risoluto a promuovere il decadimento di un potere radicato da secoli! — Di che ebbe a trarne i più lieti auspici Ferdinando IV. II quale dopo un anno di ghirigori, di reticenze, di solite informazioni accordava al Piccolo, come primo e stupendo esempio, che Naso fosse tornata al pristino splendore di Città Demaniale; e quindi restiuito al Sandoval il mero e misto impero, aggregata alla Sovrana regalia la creazione di quei Magistrati. Oh! che immensa gioia agitò allora il cuore del Piccolo! — Torna lietissimo in patria, ma sdegna ogni festa, vieta ogni tripudio, perocché meno che ai suoi alleati, tace a ogni altro il grande avvenimento. E trova il Sandoval, il quale nulla o poco aveva spillato della trama misteriosa, fa irrompere ancora i suoi bestiami nelle private proprietà, manda a uccider galline nei poderi altrui, richiede cacciagioni nelle feste, impone servizi, ripristina il privilegio dei mulini e dei trappeti, rinnova spolverando le tavole degli ascrittizii. E trova ancora che a siffatte esorbitanze si risponde con frequenti clamori, col picchiare di santa ragione armigeri e valletti, con aprire trappei(11) e mulini privati, fregando l'odioso privilegio. E poi vien la volta del clero. L'Arciprete avea precise dovere in ogni processione di fermarsi col seguito di faccia alla residenza del Conte, di volgere per di là statue dei Santi, far la benedizione e passar oltre lentamente. Ma intravedutosi qualcosa della missione del Piccolo, all'Arciprete Domenico Cuffari montò la bizza e volle dare un tuffo nel rivoluzionario. Occorreva la processione di N.S. del Carmine. Egli, costretto o no in casa da malattia, vi mandò il suo Luogotenente, a cui avrà frullato una parola nell'orecchio; e difatti il grazioso simulacro della Madonna passò diritto in una fuga vertiginosa dinanzi al palazzo del Sandoval. Il terribile atto venne tosto denunziato dal Conte irritatissimo alla Giunta dei Presidenti e Consultore; la quale, trattandosi di Baroni, dovea far del chiasso apparentemente, a secondare 1'influsso della nuova politica; e ne scrisse all'Arcivescovo di Messina, che intimò il Luogotenente ad audiendum verbum pastoris. Ma il Luogotenente si rivolse a Ferdinando IV, e con una dichiarazione evasiva, con una protesta devota per l‘Illustrssimo Conte pare che l'incidente non avesse avuto altro seguito(12).
------- (8) La famiglia Piccolo venne in Naso verso il 1598, e comimciò col Dottore Antonino, il quale sposò Delfina Lanza, sonna di cospicuo casato nassanse, da cui ebbe 12 figli; dei quali sopravvissero Gian Giacomo e Cornelia. V. Lib.IV, § 26 e App.Gen. Lett. A. Iscriz. XLIII.
(9)V.
App. Gen. Lett. A, dopo l’iscrizione LV
Avendo noi con esperienza conosciuto la
sufficienza ed abilità più che idonea di V. S. bestialissima in aver
pubblicamente, conforme a tutti è notorio, operato inumerabili
andamenti bestiali, come sono Ragli, Calci, corse, strecature, ed
altri. — Per tanti attenti li meriti di voi N.N. abbiamo risoluto,
ordinato coll'intervento dei nostri quatrupedi e fare partecipe di
tutti foraggi, franchezze, animalità e bestialità somaresche, anzi
vogliamo, che da oggi innanzi dobbiate farvi appellare con nomi
propri
cioè
Animale, Asino, Bestia, Someri, Sciecco, Camaro, Sardisco, Baduino
v'abbiano da trattare quatrupedo arragliante dell'infinita
condizione, e farvi bullare o segnalare con uno o più merchi di
ferro, portare una o tutte due l'orecchie e Nasche tagliate, coda
corcia, grigna rasa, etiam di potervi ferrare, sangnare, medicare
ove M. Antonino Vento mastro Deputato e salariato dalla nostra
bestiale Sede, con il Torcitore se non starete fermo, ed oggi
innanzi v'assegnamo a Cono Spavento per insegnarvi colle pasture, a
correre, galoppiare, andar di trotto, passo pieno, portante, poter
mangiare paglia, ferraina, sulla, orgio, potervi beverare in
qualsivoglia beveratura, spandente, fiomara, acqua morta, strecarvi
in tango, letame. Palude et ulterius potere affirrare etc. non men
di potere portare fiocchi, zagarelle, giumboni, fasciali, freni,
capizzoni, capresti, barde, bardelle, occhiali, campanelli, etiam di
potere portare biade, formento, orgio, farina, oglio, vino, aceto,
legumi, gibiso, pietra, rina, stereo di cloache etc. ed altro qual
siano bastonati con legno, nervi et ut plurimum col Torcitore, et
demum di poter commettere ed operare qual si sia bestialià, Asinità
ed altre attioni animalesche ad vostrum libitum voluntatis, cosi
solo, come accompagnato, così di notte come di giorno senza poter
essere conosciuto d'alcun fisco, Corte, o Tribunale se non della
Nostra Bestiale Sede, e così eseguirete
per quanta la nostra animalesca grazia tenete cara,
sotto pena di bastonate Mille d'applicarsi sopra la vostra schiena:
Onde attenti le vostre più che bestiali e bestialissime attioni,
abbiamo risoluto vi si spedischi il presente prvilegio
d'Asino
in perpetuum firmato col nostro Bestiale Sigillo, m.m.f. — bartoi.us
de asei.lis
(Lafirma è ad imitazione di quella del Sandovall).Sigillo,
una testa d'Asino, eppoi: Registrata — Conus Spavento. Antoninus
Castano Magister Cerimoniarum.
Nel momento che tanta concitazione diffondevasi in Naso, crede il Piccolo opportuno dar l'ultimo colpo; e chiamò a se Saverio Biscotto. Il delicato artista nassense si mooriva di miseria, l'eterna corona di tutti i pazzi innamorati del bello. Ai dì passati tra il servaggio feudale si era vista almeno sorgere una qualche opera di arte, animata, incoraggiata o promossa dai Baroni. Col Sandoval invece l'arte divenne un logogrifo increscioso a spiegare! — E il Piccolo promise ai Biscotto larghissima ricompensa, rialzandolo dalla povertà in che era caduto, purché, rinfervorando ie sue ispirazioni, gli desse un disegno veramente elevato di una statua di finissimo metallo: la statua di Ferdinando IV. II Biscotto vi corrispose stupendamente; e il Sovrano usciva dalle concezioni dell'artista nel momento di accordare una singolarissima grazia, però col braccio destro testo e lo scettro in mano in atto di comando e di esclusivo comando. Allora nuove contese e nuove tempeste. L'Università. volea concorrere alla costruzione di quell'opera; il Piccolo protestava di volerla a sue spese; e di quell'opera si parlava e riparlava, quell'opera era il soggetto di tutti i discorsi, l'argomento di tutte le dispute, e via via quell'opera divenne come un segno, una convenzione per significare l'epicedio del feudalismo. Ferdinando IV supplicato diversamente, in tanta gara, a mezzo della Giunta dei Presidenti e Consultore, e della Corte del R. Patrimonio, prese dapprima a ciurlare nel manico, non volendo forse eppoi volendo la statua, ma con certi rigiri, con certi ripieghi, e infine consentì che fosse levata ma a sole spese del Piccolo, senza che il Comune si aggravasse di alcun concorso. . Diego Sandoval cominciò frattanto a veder chiaro in tanto tramestio; ebbe infine a comprendere il doloroso incidente del mero e misto impero. E subito si studiò aggrapparsi a tutte le roste, a tutte le vermene come chi è in precipizio. Dopo scritto e procurato invano perché la grazia ottenuta fosse rivocata, sospesa, dilazionata, scende anch'egli in campo nell'affare della statua; e, divenuto a un tratto e contro sua voglia realista, vuol concorrere nella erezione di quella, ordinando che fossero incise in un lato del piedistallo le sue armi. Fu una tempesta, uno scoppio di generale indignazione. Le Armi del Conte nella statua? erano per lo meno un'ironia! — Ma il Sandoval inflessibile e tenace fe' sospendere la erezione del monumento. Fu interpellata la Giunta dei Presidenti e Consultore, la Corte del R. Patrimonio; o dopo le rituali informazioni, dopo le solite lungaggini e stirature, tanto per far onore all'Illustrissimo Conte e tenerlo in considerazione, la Corte di Napoli gliela decise sulla spalla, ordinando che padronissimo s'egli volesse fare di proprio una statua al Sovrano, ma che in quella della cittadinanza, in quella del Piccolo ei ci stava come il cavolo a merenda(13).
Ma ancora nuovi
ostacoli e nuove difficoltà. Il Biscotto faceva eseguire il suo
disegno ai fonditori Francesco Trusso, Gaetano Zumbo e Biagio di
Carlo, i quali vi lavoravano nella Chiesetta campestre della
Misericordia. E frattanto il Piccolo dava opera a far costruire il
piedistallo marmoreo disponendo il trasporto di tutti i materiali.
Il piedistallo dovea sorgere nella Piazza già di Filippo, di contro
alla provvisoria dimora del Sandoval come a muta ma eloquente
protesta! — Ciò arrovellava il superbo Signore. Ed ecco che la
Giunta dei Presidenti il
2
novembre 1770 ingiungeva sulle istanze del Conte, di sospendersi il
trasporto dei marmi, però sino a nuove disposizioni(14)
(13)
Al sigr. D. Mario Drago Martinez R. Fiscale di Naso. — Essendo stato
da S.E. Sr.
Vicerè comunicato alla Giunta dei Presidenti e Consultore in seguela
di Real Ordine 1'infrascritto Biglietto del tenor che siegue. —
Informato il Re Nostro Signore delle controversie suscitate nella
Terra di Naso tra quei Cittadini ed il Barone Principe di
Castelreale, pretendendo i primi di erger
colà
la statua della M.S. a proprie spese, senza che vi si mescolasse
affatto il Barone; questi all'incontro sostenendo di volere ancor
esso contribuire per sua parte, con che però si dovessero incider da
una parte le sue armi, dall'altra quelle delI'Università: Dice che
potrà far l’Università la sua statua, e il Barone potrà fame altra
egli solo se vorrà. Di Real ordine, che ricevo pella via di Stato in
data de' 8 del corrente lo partecipo a V.S. acciò ne faccia intese
le parti; e nostro signore la feliciti. Palermo 20 settembre 1770.
II Mirchese Fogliani. — Bemardino Denti Segretario. Rimessa alla
Giunta il
24
settembre 1770.
— Erano le solite frasi emollienti della Giunta, attinte all'ipocrisia politica da noi avvertita. E la Giunta istessa, presso cui dal Piccolo si tornò a reclamare, con altro provvedimento del 30 dicembre 1770 (15), si affettò di permettere il trasporto, testè impedito, dei marmi, ma con un nuovo emolliente: riserbavasi ancora di decidere su la scelta del sito in cui si sarebbe eretta la statua.
Oramai tutto era in pronto; e tante smancerie e allumacature
ufficiali stancavano il pubblico, che attendeva da un anno, fecero
prorompere addirittura il Piccolo, che, risoluto a finirla
ricisamente, si rivolse con memoriale nell'ottobre 1771 a Ferdinando
IV, in cui espose il desiderio di levarsi quella statua con
cerimonia, con feste, con tridui, esprimenti la pubblica gioia(16).
(15) Al sigr. Capitano di Naso. — Dietro la carta di
V.S. Spettabile in data de 11 del decorso mese di novembre dirizzata
a questa Giunta dei Presidenti
e
Consultore, in cui le dà conto di aver dato esecuzione a di lei
ordini, con ingiongere a cotesto D. Mario Drago e compagni di non
far veruna novità pell'erezione della statua del Sovrano sino alle
disposizioni di Giunta, mi ha ordinato in seguela medesima
d'incaricare a V.S." che impedisca assolutamente l'erezione della
mentovata statua, e del piedistallo, per insino che avrà ulteriore
ordine di questa Giunta, che dovrà determinare il sito ove debba
situarsi. Pel trasporto materiale dei marmi pero non debba V.S.S.'
inferire al Drago e compagni il menomo impedimento dipendendo sempre
dalla risoluzione della Giunta il luogo ove debba erigersi il
simulacro. Tanto eseguirà e per sempre mi raffermo. — Palermo 30
dicembre 1770. Bernardino Denti Segretario.
Gli ordini del Re arrivarono per la Corte del R. Patrimonio; che sempre circospetta, sempre chiusa nel solito riserbo, correggeva il cerimoniale proposto dal Piccolo tanto per non far troppo chiasso, almeno in apparenza, almeno ufficialmente, perocché quella Corte era sicura che ordini siffatti, e in un caso di tanta pubblica commozione si sarebbero messi di là. ll Sandoval inconsapevole del memoriale e delle disposizioni reali, si cullava nel sogno che la statua non si sarebbe alzata; fidando ancora in occulte trame da lui ordite a indugiare l'abolizione del mero e misto imperio. Quando il Piccolo, ad evitare nuove opposizioni e nuovi contrasti, in una notte del febbraio 1772 fe’ levare il piedistallo, da un anno già fornito, e sovr'esso la statua, quasi nel centro della Piazza di Filippo. Il piedistallo di marmo chiazzato, era di forma . triangolare, con gradini attorno, decorato di tre lapidi, una delle quali fu omessa forse pel disaccordo su la scelta delle iscrizioni(17); e tutto insieme di correttissimo disegno. La statua fu giudicata veramente artistica, imponentissima. Sul rompere del giorno di quel memorabile febbraio 1772, un prete depone sul piedistallo tre posate di argento, e tosto da ogni lato scoppiano applausi e voci incondite e pazze; e si prese a cantare a distesa una specie di canzone bassa e offensiva intitolata La Cuccagna\ — Più tardi esce la solenne processione dalla Chiesa Madre, e la Milizia Urbana, e la Corte Giuratoria, e tutti gli Ufficiali, già creature del Sandoval, e poi popolo immenso pigiantesi a vicenda. Ognuno si scopre dinanzi alla statua: s'intuona il Tedeum, e subito mortaretti e fucileria assordano l'aria, già assordata da gridi confusi, indistinti di convulso entusiasmo. Il Giuriato seniore inalbera l'antica Bandiera Reale, e qui nuove e frenetiche esplosioni di gioia. A tanto sorbollimento, e in quella che la processione volgesi indietro, succede un generale silenzio: da tutti guardasi in alto come colpiti da inaspettata meraviglia. Il Sandoval, forse consigliato dalla consorte, la buona Giuseppa Joppolo, si era prudentemente affacciato al verone, scoprendosi il capo in atto di umile ossequio, di profonda adesione ai reali Decreti. Il silenzio, a tal vista, continuò più circospetto e più grave. ------- (17) Le iscrizioni concordate ed incise furono due, che noi abbiam riportato nell'App. Gen. Lett. A. Iscriz. LIV e LV. Ma doveano esser tre e precisamente le seguenti, che poi si rifiutarono:
1.“ D.O.M. — Ferdinando IV Siciliarum et Hiersusalem etc. — Regi potentissimo — Principi amabilissimo — Patri Patrono Vindici — Unico Domino — Domino semper Augusto — Ob gratiaruni affluentiam Civitas nasitana — P. Anno Salutis — Idibus Februarii — CICDCLSSII.
2.“ Civitatem hanc Nasi — Agatirsides Neseidesque compendium — Coronam olim Principum — Pristino decore omnium exoptatissimus — Princeps — Munificentia amputat extollit educit — PP. CC. — Regiis Miliribus et Comarcae Rerum — Bellicarum — Praefectis —.
3.“ Subditos Vassallos Nassenses — Grato prudentique brachio — Adamat — Vindicat abit — Eorum unus integerrimus Dominus — Rex Pater — Ere vero proprio homillima Civium — Corda representat Patricius — Cajetanus Franciscus Piccolo — ”.
Giorni dopo il Sandoval abbandonava la sua bella Contea tramutandosi
per sempre in ove usciva di vita in su lo scorcio del 1788. Con lui
liberavasi Naso da una schiavitù, che aveala or agitata, or
impoverita, or difesa, oppressa sempre durante il corso lunghissimo
di seicento novantaquattro anni(18). (18) Veramente il feudalismo si sciolse del tutto al 1788, epoca della morte del Sandoval, il quale dopo il 1772 dimorando in Palermo ebbe modo di non farsi spogliare affatto di talune prerogative, che gli vennero tollerate forse per consentimento del Piccolo e della cittadinanza nasitana. Vediamo difatti pel documento riportato nella nota antecedente (n. 2) ch'egli sino al 1781 avea parte nell'elezione di taluni magistrati, e che fra questi, come appare dall'atto di N.r Pizzino, volle egli espressamente il Piccolo. Dopo dieci anni gli animi si erano riconciliati. Benché parve da un risentimento individuale scoppiata la lotta sostenuta dal Piccolo, nondimeno costui ne fece sempre una quistione nobilissima di principio. E quindi, morto il Sandoval, a cui individualmente poté perdonare e stringer la mano, non seppe tenersi però dallo aggiungere una seconda lapide al famoso monumento faccendovi scolpire il terribile temporum iniquitate depressam!! (V. Append. Gen. Iscriz. LV). I contrasti frattanto con la partenza del Sandoval non quietarono. I preti proprio l'avean con lui. E dopo il brutto tiro fattogli dall'Arciprete Cuffari, venne su l'altro Arciprete Salesio Cicero a procurargli nuove ambasce con la Chiesa di Capo d'Orlando. Questo santuario, di cui ci occuperemo al Lib. IV, era di patronato comunale perché dal popolo eretto; ma coi Baroni parlarsi di Comune, di diritti, di popolo... tempo perduto! — II Cicero dunque, partito il Sandoval, penso introdurre in quel santuario una novità: mandarvi, cioè, il suo Luogotenente con due Cappellani fasciati di stola, in segno d'illimitata giurisdizione, e il Cappellano del Sandoval messo fuori a guardare, donde ne nacque un tafferuglio. II povero Conte non ne poteva piu! — Inghiottendo amaro, elesse di rivolgersi all'Arciprete con la lettera seguente... ah! ma non era più il Sandoval di prima! — sprizzando dell'acredine, pur notate com’è mogio, come rassegnato! “ Molto Reverendo. Ho avuto tutto il piacere in occasione del passo datosi dal Capellano del Castello di Capo d'Orlando per l'uso della Stuola dei due Capellani, che accornpagnavano il vostro Luogotenente, che si avesse dato dal medesimo tutta la soddisfazione a voi, ed al vostro Luogotenente in comprova dell'attenzione che meritate, e della mia cordiale stima; nel tempo stesso però sono ben sicuro, che colla vostra saviezza, non permetterete in avvenire la menoma novità che sia di pregiudizio di quel luogo, ed avrete similmente per il Cappellano suddetto, e suo fratello quel riguardo, che per il passato gli avete usato, Vi raccomando ad avermi presente nel Divin Sacrificio, e nelle Sante Orazioni vostre, Io priegovi dal Cielo vere felicita. Palermo 16 novembre 1787- — II Duca Conte di Naso ”. Ma l'Arciprete continuò nell'introdotto privilegio, e il santuario di giurisdizione matriciale, usurpato dalla Contea, d’ovrà tornare al patronato del Comune, cui spetta storicamente e giuridicamente. |
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Cenno storico della promiscuità Cade qui opportuno sviluppare brevemente questo tema. — Nei pingui feudi, vasto e dovizioso appannaggio della nassense Signoria, dacchè sursero i demani feudali, godevansi dai cittadini, allora vassalli, diverse servitù, che pigliaron. nome di usi civici. Contradetti o assottigliati dai Baroni, riacquistati dai vassalli, spesso furon causa di dissensioni e di amaro contendere. Nel periodo dei Joppolo vennero in Naso, come già dicemmo, chiariti e affermati nei Capitoli della Città; e, meno i dissidi occorsi col Sandoval, quegli usi si continuarono ad esercitare pubblicamente. II nuovo ordinamento giuridico delle due Sicilie, ispirato ai nuovi progressi delle scienze economiche, non potea però consentire nell'interesse della libertà fondiaria il turgido e feudale istituto della promiscuità; e con vari decreti si comincio lo scioglimento dei demani ex-feudali. La Contea di Naso, sopraccaricata da enormi debiti, — patrimonio della famiglia Sandoval, — ebbe amministratori giudiziari; nuovi proconsoli feudali in ventiquattresimo. Niegarono costoro ai Comune il possesso secolare degli usi civici; ma, provati luminosamente ai 1830 presso la Commissione Provinciale di Messina, rifermati con Ordinanza dell'intendente della Provincia 23 gennaio 1843; furono combattuti presso la G. C. dei Conti che diè avviso contrario al Comune. Ma l'avviso si revocava con Sovrano rescritto del 24 giugno 1850; e con sentenza della Consulta di Sicilia 22 settembre 1855, il Comune riceveva in compenso degli usi accertati talune quote sui diversi feudi, modificandosi l’accantonamento già ordinato dall'intendente. Il compenso, magro di per sè, parve lauto e, quasi dissi iniquo, ai proconsoli amministratori, e l’accantonamento della Consulta fu annullato dal nuovo Magistrato di Prefettura con sentenza 18 marzo 1873, commettendosene ancora un altro! Tuttavia, di fatto, regge il vecchio accantonamento, e quindi il Comune è in possesso di parte del Feudo Grande, ovè Morco, il gran bosco, dai sugheri chiomanti e secolari, e diversi strappi di altri feudi. Omettiamo la pubblicazione del documenti, perché la sarebbe inopportuna, se non inutile, quando ancora è pendente la lite. |
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I.
CARLO VENTIMIGLIA.......................... dal
1570 - 1584 |
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§ 34- Nuovi
trernuoti del 1786 e lor danni..
A non rompere il filo della storia nostra, e cedendo più all'ordine delle idee che a quello dei fatti, ci siam tenuti descrivere innanzi i due tremuoti del 10 marzo e 24 luglio 1786; i quali conchiusero quasi quella rivoluzione morale che avea di poco scacciato il Sandoval e il secolare feudalismo. Cotesti due trernuoti, come gli altri, furono esiziali a Naso. Da un'accurata relazione!(1), ordinata in quel tempo ed eseguita dai Capo-maestri Antonino Prao, palermitano, eletto dai Barone Diego Forzano e Pisano Commissario generale, e Filippo Spaticchia dai corpo dei Giurati, si desume, che presso a 72 case patirono; oltreché nella Chiesa Madre i danni furono estimati toccare ie Lire 4.517,50; nel Monastero di S. Caterina Lire 4.207,50; nella Chiesa di S. Pietro, compreso il campanile, Lire 4.645; nella Chiesa del SS. Salvatore Lire 3.952,50; nella Chiesa di S. Cono Lire 4.662,50. Sofirirono eziandio ie Chiese di S. Biagio, di S. Giovanni, di S. Niccolò, del Soccorso, degli Angeli; il forno pubblico nel Piano della Chiesa Madre; la Cassa Comunale. Ruinò il muro del Tocco; l'altro del Piano del Castello, e la parte rimasta del Castello medesimo; l'altro di Porta Marchesana; le mura della città qui e colà abbattute, che a rifare si stimò necessaria la somma di Lire 1.785; e i danni tutti ascesero alla notevolissima cifra di Lire 65.132.
Di tanti
edifici, guasti e rovesciati, parecchi si rifabbricarono; molti
però, e i più nobili, si lasciaron cadenti; e fra questi il maestoso
Castello e le mura della città, testimoni vetusti di vetusta
grandezza. Oh!
la natura, agitandosi tremenda, rinnovella a ogni
tratto se stessa; traveste sin'anco i monumenti, unico ricordo di
tempi che furono, lasciando, or sì or no, che lo storico gli legga
in essi e tramandi, alle generazioni che s'incalzano successivamente
nella tomba.
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§ 35. Torbidi
municipali del 1813. Ravì.
La nostra storia, avvicinandosi al suo termine, corre a balzi; tace per 25 anni; va a rannodarsi al 1813. Fu a Naso memorabile quest'anno: vide essa, dopo lunga pace, crudeltà e stranezze non pria forse vedute. Mosse da inconsideratezza, animate da ignoranza, si successero rapidamente: ebbero in breve principio e fine. Gli animi tuttavia commossi dalla rivolta dell'anno precedente, i villani sopratutto, non quetavano, erano insofferenti, quasi muovevansi a ogni piè sospinto. Venne ora a crescer l'impazienza una tassa su la seta, che il governo dava in appalto. Lieve cosa era; lievissima se raggugliata ai dì nostri; ma grave e angarica diveniva nelle mani di tristi agenti. — I villani, e chiunque altro industriante, schiusi i bachi, dovean notiziar coloro; cresciuti e poi chiusi in bozzolo, similmente. Allora, ecco gli agenti correre alle bigattiere, valutarle a capriccio, non udir proteste, e imporre a lor senno. Poi all'estrazion della seta un finimondo di guai: portarla al pubblico pesatore: soffrire ivi stiramenti, indugi, ingiustizie, bollette; e la seta medesima strascinata su e giù, che era un'oppressione(1). Stancava quindi, non la tassa, il modo; e la tassa, poi tolta, dicesi fosse continuata a riscuotere; e questo increbbe e suscitò i villici indicibilmente. E sin qui un'altra imposta, quella del macinato. Lievissima cosa anco questa, ma brutta, ma eccessiva, scottante il povero, l'indigente; più brutta allora, più eccessiva pel modo, indignò i villici molto più. E anco sin qui avean ragione. Insanirono del tutto però quando si misero a chiamar capo e principio di mali siffatti il corpo municipale; perché, a loro imaginare, richiamandosene questo ai governanti superiori, le imposte sarebbero state senza meno abolite. Tantè, da lì a pochi giorni, a un certo Paolino Casilli, si pignoravano i buoi, e l'odio più ottenuto, più violento scoppio. Il Casilli, villico agiato, raunati compagni e malcontenti, traeva furibondo al paese. Fortunatamente veniva con dolci modi acquietato e ammansito dall'insigne Arciprete Giuseppe Piccolo; acquietati e ammansiti mirabilmente i suoi. I quali, tornati addietro, s'avvennero, ai fonte Colliri, in contadina efferatissima: la moglie di Ventundito. Essa, a vederli calmi e svigoriti, diè in ismanie; gl'incitò a sommossa, urlando quanto n'avea in canna: innanzi! — non ò peranco insanguinate mie mani: “pecora nera e pecora bianca, chi muore muore e chi campa campa!”. Tutto cadde nel silenzio allora; ma il silenzio pochissimo durò. E di vero, il 6 giugno, giorno in cui ricorreva la Pentecoste, la tentata sommossa, così studiosamente evitata, avea suo effetto. Levatasi via via quasi tutta la contadinanza, guidata da tre villici audacissimi: Cono Mirto, Vincenzo Rositta, e Carmelo Pizzino Sanna; con zappe, scuri, ronche, e altre armi, piombò su Naso. Imbestialita, cercò a morte taluni gentiluomini ch'ella più odiava, e da cui teneva sgorgassero principalmente sue sofferenze e suoi mali, cioè: Gaetano Parisi, stato Giudice civile ai 1785; Salvatore Cuffari, capitano di giustizia; Gaetano Giuffrè, e Giuseppe Cangemi, Giudice. In tanto tramestio, ecco nuovamente l'Arciprete Piccolo a usar modi amorevoli; a pigliar dolcemente quei furibondi; ma ora fu tutto inutile, anzi peggio. L'incendio era già grande; a soffocare impossibile, valea farlo divampare assai più. Di che l'Arciprete ebbe, invilito, a ritirarsi. I villici assaltarono allora la casa del Parisi, chiedendolo alla consorte. Costei, apparentemente intrepida facevasi innanzi. Credè dapprima quegli animi esagitati sedar con l'oro; confidare in taluno di essi, forse suo dipendente; e di oro portò ripieno il grembiule: non l'avesse mai fatto! — Ironie e sarcasmi ebbe a soffrire, e molti, e oltraggiosi per gentildonna. Quelli non cercavan'oro, ma il fiero ideale di lor miserie e dolori, come la ignoranza glielo aveva dipinto, come s'eran persuasi che dovea essere insomma; e quel loro senso ribelle non consentiva che guardassero oramai a dipendenze e amicizie. Non trovato il Parisi, tempestaron, muggirono; s'avviaron dirotti alla casa Giuffrè, poi a quella del Cuffari, infine dal Cangemi. Ma nessuno vi trovarono: quei lor tiranni imaginari s'eran tutti fuggiti via. Dal Cangemi v'incontraron la moglie, la signora Marianna Giorgi; una buona e prudentissima donna; la quale prese affettuosamente a calmarli, a raddolcirli, e poi a persuaderli che il suo consorte, in loro ambasce, non c'entrava per nulla; che l'avesser lasciato, e che infine avevan ragione. Magica parola, che in quei momenti evita pericoli, guadagna simpatie; e che, detta come la disse la Giorgi, muta l'odio in amore, e l'ira in applauso. . Corrucciati intanto della fuga di quei gentiluomini, tiraron frementi verso l'abitazione di certo Antonino Lipari, soprannominato Ravì(2). Era costui Capitano di Notte, Tesoriere del Peculio, e trafficante conosciutissimo. Due torti egli aveva: quello di testimonio assistente al pignoramento Casilli; e di avere una moglie, la quale, imprudente, nelle prime sedizioni, si lasciò correre contro la contadinanza brusche parole. Due motivi allora eran troppi per accender odi; e il Ravì fu inseguito e gridato a morte. Benché alto e complesso di persona, al primo assalto rapidissimo fuggì, strabiliando tutti di tanta agilità in corpo si grave; campò in sua casa e serrossi, ma invano: vide cader le porte sotto le scuri di quei tristi. Scongiurando novellamente il pericolo, sbiettò di mezzo alla folla, e questa dietrogli sino al largo delle Chiese. Ivi, presso alla via, presentemente delle Poste, venne aggavignato e carico di percosse; quindi a furia di scuri e di zappe finito; e infine strascinato lungo quel tratto di strada che va al gran rialto del Belvedere. Quivi giunti, il venerando sacerdote Filippo Cangemi, poi Parroco ed Arciprete, commosso a vista sì atroce, preso un Crocifisso, incominciò a scongiurarli pietosamente; cessassero l'iniquo spettacolo; gravi esser le miserie che così preparavansi; esempio orrendo farebbonsi alle generazioni future; se stessi e il paese rovinerebbero; non esser quello il modo di torsi ai guai e alle sofferenze. Fiato sciupato, parole inutili: quei contadini risposero al pio sacerdote sollevando il cadavere del Ravì su le zappe, e precipitandolo da quell'altezza enormissima, al grido concorde di Viva S. Cono! — Mostruoso impasto di bene e di male, di religione e di delitto, di Cielo e di terra, che dicesi plebe sdegnata e ignorante. Compiuto quei sacrificio, la folla si sparse, si ricompose, ondeggiò, inebriata ed esultante; e al suono di molti tamburi, urlò: la poliza già abolita; ciascuno ora poter macinare a suo grado. Uscita poi a quell'ebbrezza feroce, pensò, ruminò, si avvide aver fatto a sproposito, cercò mitigare, legittimare le sue esorbitanze; ma liberarsi eziandio dai mali patiti. Questi sentimenti venner colti e saputi trattare da due strenui giuristi di allora: Gaetano Lo Re e Cono Giuseppe Trassari. A costoro ricorsero i contadini, ed ebber promesse gran cose. Però diffidenti, li trassero insieme ad altri gentiluomini, fra cui il Notajo Francesco Paolo Incudine(3), nella casina della gentildonna Margherita Cuffari, ora della famiglia Maneri, sorgente sovra un rispianato di contro al torrente Forno. Quivi racchiusi, circondati da enormi fasci di legna destinati a falò quandoche fosse, gli obbligarono a spedir suppliche a Palermo, significanti e lor miserie e lor gravezze: volere ogni imposta abolita, e sovratutto la poliza, sistemato il Comune. Il Lo Re, serio a queste stranezze, giuntolli mirabilmente: dettò in un senso e fu scritto in un altro. La supplica venne inviata; e intanto il paese attendeva ansiato, sbigottito, tremante: temeva di quei gentiluomini, costretti laggiù in quella casina e in tanto cimento: affrettava il termine del dramma funesto. Infine, giorni dopo, fu da Palermo mandato il Commissario Vanasco con un nerbo di truppa. Entrato in Naso, e messi alle porte principali quattro cannoni, colle viste di far giustizia ai contadini, chiamolli tutti. Cercati poi tra essi i capi della fiera sommossa, e fra questi il Mirto, il Rositta e il Pizzino-Sanna, gli arrestò(4) e fece legare alle code dei cavalli. Tradotti a Palermo, imprigionati senza processo, penarono tanto che molti di essi, fra cui il Mirto e il Rositta, da detenuti morirono: superstite il Sanna, dopo alquanti anni tornò.
Questo terribile avvenimento frattanto produsse indicibili ruine;
prostrò, immiserì inesorabilmente la contadinanza; la quale indi
innanzi, non rilevossi mai più. -------- (1) L’ufficio del pesatore era nel magazzino del
palazzo Piccolo, di faccia a quello dei signori
Leone. |
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Dal 13 a poi durò in Naso la pace. Il progresso dei tempi partorì quindi nuova legislazione: ragionevole, savia, ai costumi adatta, invaghì gli animi, riconfortò. I Comuni riordinati, ebbero nell’amministrativo non più Giurati, ma Decurioni e un Sindaco. Primo Sindaco di Naso fu Gaetano Giufrè; poi Francesco Parisi ai 1825, e via via gli altri, come si vedrà dalla serie, che appresso riporteremo(1). Governando il Giuffrè, a 5 marzo 1823, in sul tramonto, terribil ribombo s’udì repente, e inarcarsi e tremar la terra: era nuovo flagello ricordante i passati. Balzan qua e là ondeggianti case e tetti, cozzan tra se; franan poi con orribil cigolio spargendo pietre, rottami, tegole e mattoni su le vie. S'alza in tanto fiacco gran nube di polvere, che non lascia nè vedere, nè udire, e tutto il paese investe e circonda. Chi si caccia dalle finestre, chi scende cavalcioni per le travi cadenti, chi in varie guise malconcio per fuggire: tutti cercanti piano e campagne.
Durò
lungamente l'orrendo tremuoto; alfin chetossi. Allora si videro le
vittime: un solo morto, pochi senza braccia o gambe. Scavate le
ruine, trovaronsi i sepolti; vivi tutti, pesto qualcuno. — Gli
edifici però patirono abbastanza; vari ruinaron del tutto. Il largo
del Duorno, così grande e maestoso oggidì, decoro del paese, era
allora occupato dalle case seguenti, che cadder tutte: quella dei
signori Giuffrè, spaziosa assai; di Notar Lucio Papa; di Stefano
Oliveri; di Stefano Lipari; di Cono Pizzino; di Carmine Coletta; di
Cono Leone, e di Gaetano Monforte. In quella dell'Olivieri c'era una
ricca drogheria; e si ricorda pure la pergola di greco che ombrava
graziosamente la prospettiva della casa Monforte. V'era inoltre
l'Oratorio della chiesa di S. Pietro, con lunga balaustra; e dove il
largo finisce e s'apre il vano fra le case D'Amico e Xhilone,
levavasi il forno pubblico. Il vasto largo d'oggigiorno venne,
sgombrate le ruine, fatte livellare dal Parisi Sindaco e dal
giurista Nicolò Trassari, tesoriere. Nel largo presentemente di
Ruggiero Settimo, v'era la casa Puleo e l'altro pubblico forno, che
andaron giù. Crollaron due ordini del maestoso campanile di S.
Pietro; la gran volta del tempio del SS. Salvatore, rifatta al 1831
dal Parroco Vito CoUica; il campanile della Chiesa Madre,
ricostruito poi dall'Arciprete Antonino Cicero. Si lamentarono
infine altri guasti, qui e colà, che ci faremmo lunghi a narrare. Da
quel rovinio frattanto sgomenti i nasitani, determinaronsi
abbandonare il paese, e rifabbricarlo tra S. Gregorio e Capo di
Orlando, ove già era la bella Agatirside. Ma a simil disegno si
opposero i vecchi, quelli che più valevano allora; gelosi delle
memorie; sedotti dalla maestà dei sacri monumenti, rimasti illesi, e
fu male, male gravissimo; perocché il paese, trapiantato colà,
sarebbe in floridezza mirabilmente cresciuto. Tant’è, il cuore
spesse volte la vince su gl'interessi, e non a caso il poeta
esclamava:
dulcis amor patriae!
(1) V. Lib. IV, App. Gen.Lett. U. |
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Naso nel 1848, meno i barbagli e le grida, naturali nelle sommosse, nulla avrebbe contato, se non si fosse commesso atto brutale, ledente la sua dignità, la santità delle prische memorie. Non v'ebber parte pero i Nasitani; fu opera tutta di forestieri. In quel bairamme, spregiando costoro in casa altrui le venerande tradizioni, atterrarono in un tratto la statua di bronzo, rappresentante Ferdinando IV. Fosse tema o indolenza, il Sindaco di allora non si oppose: avrebbe potuto a ogni modo farla condurre in luogo privato; serrarla nella casa comunale o altrove, purché custodita. Invece, ridotta in pezzi, veniva poi tramutata in strumento di morte, e condotta via. Ed era il solo monumento di nobile orgoglio cittadino; il solo ricordo dell'ebbrezza di un popolo sorgente a libertà dopo schiavitù secolare: una solenne memoria del genio nasitano nel campo difficilissimo delle arti belle, che non possiamo ricordare senza dolore! |
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§ 38. Due ultimi casi. Transizione.
Ed ora, eccoci al termine delle civili vicende che siam venuti enumerando e considerando sin qui. Le quali, pria di finire, ci piace rannodare a due ultimi casi, pochi anni fa avvenuti, cioè: 1869 e al 1870. In quell'anno contristò Naso il tifo; in due mesi allargossi orribilmente, prendendo con ispecialità tutta quella parte dell'abitato, ch'è di contro al cimitero provvisorio dei Cappuccini, donde si partì peraltro e venne alimentato. Imperocchè, espurgate quivi imprudentemente tombe recentissime, si trasser freschi cadaveri, accastellandosi all'aria aperta, a marcire più dì. L'aere infetto ingenerò quel morbo; il quale vestì il lutto a più famiglie, e fe’ sanguinar molti cuori. Dopo il tifo, a 2 giugno del vegnente anno settanta, su la mezzanotte, si appiccò il fuoco a quella parte della Residenza municipale ove era la Pretura. II fuoco crebbe, e l'incendio poco a poco infierì, svegliò i vicini dormenti, svegliò il paese intero. Si accorse nella piazza; si temè maggiormente per sottostare all’incendio il pubblico Archivo notarile. E allora si diè opera a trar fuori i volumi e le carte; e poco a poco il fuoco ammansì, si sedò, e si spense, dopo inceneriti i tetti, e quasi tutto 1'archivio della Pretura. Questa, tramutata in Via Contrusceri, ove trovasi attualmente, quella parte della Residenza Municipale, guasta dall'incendio, venne poi rifatta dal Sindaco Antonino Milio e Piccolo, mettendovi gli ufEci del Consiglio e della Giunta.
Con questi due casi adunque, terminando le vicende civili del nostro paese, ci riassumeremo in questa sentenza: — Naso, già Neso, surto da Agatirio e Naxida, città reali; cresciuto dalle genti di borghi finitimi; da latini, da ebrei, da normanni, venne via via in floridezza, redando lo spirito generoso e fiero di tutte quelle popolazioni. Divenuta feudo, corse le dignità maggiori di esso; e, impaziente di scuotere la servitù, soffrì, lottò, col sentimento di nobile indipendenza. Guasta da tremuotii, contristata da cataclismi, dilaniata da despoti, non invilì, non si scuorò, ma seppe illesi mantenere i suoi diritti, e quando il feudalismo, ancora trionfante, teneva di sè l'isola oppressa, Naso sapea audacemente soffocarlo sotto il peso di statua gigante. Grande esempio, che corona la sua storia civile; nella quale, se segnalarsi noi vedemmo i suoi figli, passeremo ora a esaminare di che valore ei fossero nelle lettere e nelle scienze. |
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(NASO ILLUSTRATA) da pag. 43 a pag. 104 | ||||
SOMMARIO: (NASO ILLUSTRATA) da pag. 105 a pag. 138 |
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§ 1. CONSIDERAZIONI GENERALI. -- § 2. IL GENIO DEI NASITANI. L'ACCADEMIA DEGLI AUDACI. -- § 3. POESIA (Secolo XVI al XIX ). -- § 4. CRONOLOGIA, LEGGENDA E STORIA (Secolo XVII al XIX). -- § 5. SCIENZE SACRE Secolo (XVI al XIX). -- § 6. FILOSOFIA, DIPLOMAZIA e GIURISPRUDENZA (Secolo XVI XIX. -- § 7. SCIENZE MEDICHE (Secolo XVI al XIX). -- APPENDICE: Saggio di un Florilegio di Scritti inediti e rari di Autori nasitani antichi e moderni. |
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Un paese, un municipio, non può avere una storia letteraria propriamente detta, perocché manca di egemonia. Può aver letterati, uomini culti; ma, messi insieme, non possono mai integrare un ordine d'idee, un pensiero assoluto che si svolga ed illustri per periodi distinti. — II municipio vive nella nazione; e come le sue vicende civili sono a questa congiunte, congiunta è eziandio alla medesima la sua letteratura. II pensiero letterario assoluto è della nazione tutta quanta; viene a costituirsi dalle sparse membra delle letterature municipali: ciò afferma, e saviamente, il Tommaseo. Queste, studiate in sè stesse, dicon nulla: è mestieri che si rannodino insieme, che insieme si ragguaglino per darvi la idea del bello esplicata variamente nel seno della nazione: l'Uno estetico insomma. Di che, un municipio non ha storia letteraria nel proprio senso, ma cronologia. La storia letteraria ha due lati: l'idea e il fatto: dall'idea nasce la filosofia, dal fatto la storia; entrambi congiunti oggidì mirabilmente dal solenne progresso della critica: congiunzione però, che può risultare unicamente dall'ordine estetico della generalità, non mai da quello della specialità. La cronologia invece e più moodesta; ha più brevi confini: si contenta del fatto; annovera gli uomini che si notarono in lettere; le opere loro e i loro lavori, senza esaminarli dal profilo di un pensiero generale, assoluto, ma in sè stesse, in quanto aderiscono alle leggi del vero, del buono, del bello: si anima insomma di specialità. E v'è ancora un'altra ragione. Ne municipi, nelle città, nascono spesso intelligenze vastissime; ma non si esplicano, non si manifestano, non lascian di sè memoria alcuna. Ma la storia letteraria si anima d'idee tratte da opere; e senza queste non può aver vita o movimento che sia: ondechè converrebbe quelle obliare e lasciar nel silenzio, cosa spiacevole e dolorosa per fermo. Ma a ciò sopperisce, col suo uffizio modesto, la cronologia; la quale nota eziandio quelle intelligenze, quegl'individui chiari per nobili cariche, per alte missioni occupate, e passa oltre alle esigenze della storia. Per queste considerazioni adunque, dovendo noi favellare più di letterati e di dotti che delle lettere e delle scienze in Naso nei vari secoli, il faremo cronologicamente, ordinando gli scrittori o i semplici pensatori sotto le diverse categorie dello scibile, nelle quali più si compiacquero e furon notati. |
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§ 2.
Il genio dei nasitani. L'Accademia degli Audaci.
S'egli è vero che il genio sia quell'impulso involontario che sforza a scegliere il bello, largamente considerato (1); che questo risieda nella mirabile contemperanza del tipo intellettivo con l'elemento fantastico (2), — crediam che grande attitudine abbiano i nasitani a sentire le forti impressioni dell'uno e dell'altro. II genio è mosso dal sentimento, si anima più vivamente, più intensamente sotto un cielo purissimo, un clima dolce, una natura vaga, festevole, odorosa. Che questo cielo e questa natura sieno in Naso, l'abbiam detto: tiratene or voi la conseguenza. La quale, più che a priori, ci piace far vedere coi fatti e con le memorie.
Il genio dei nasitani nelle
lettere e nelle scienze, a monumenti vetusti, di che può e non deve
superbire; si lascia addietro molti popoli culti dell'isola:
l'Accademia nominata, e non a caso, degli
Audaci,
e lì per dimostrarlo. Questa illustre assemblea,
ricordata con grande onore dai nostri storici e cronisti
(3),
e durata in fiore sino al secolo XVII, e tanto antica che non si è
potuto razzolarne l'origine. E stato scritto però ch'essa venne
istituita per
augumento della poesia e delle belle arti(4).
Di che argomentiamo fosse venuta su col
ridestarsi della nuova vita e letteratura in Sicilia,
cioè, ai tempi di Federico
II.
Sino allora, il feudalismo nell'isola, e in Naso di conseguenza,
avea indeboliti i popoli in dura oppressione; aveali evirati e
legati alla gleba. Ondechè di lettere non potea parlarsi allora;
perocché queste si svegliano, si animano e crescono mirabilmente in
vita libera, o se non libera affatto, almeno che sia favorevole al
loro spirito, al loro eccitamento; che sia concitata, irrequieta,
commossa. Or questa vita fu ai tempi di Federico. II quale,
come
tutti sanno, svegliò, eccitò, incuorò lettere ed arti, si compiacque
sovratutto di poesia, e dolcemente e soavamente s'intesero nella sua
corte melodiare i trovatori nella nuova lingua, nella lingua già
volgare, ora aulica ed illustre: meravigliando si udirono i soavi
numeri di Ciullo, di Nina, di Jacopo da Lentini, di Guido delle
Colonne, di Odo, di Rainieri, di Testa, d'Inghilfredi, di Stefano
Protonotario, di Tommaso di Saxo, e dello stesso Federico II. In
questo tempo adunque fu universale cultura, segnatamente,
esclusivamente poetica; e in questo tempo per certo i Nasitani furon
primi a secondare i voti del Re poeta, inaugurando la loro
Accademia, che si disse degli
Audaci,
istituita appunto, e torna bene il ripeterlo, a decoro della poesia
e delle arti belle. -------- (1) GHERARDINI, Elem. Di Poes. (2) GIOBERTI, Del Bello, Cap. I e II. (3) MONGITORE, Sag. Sop. Le Acc. Di Sic. Tom. I Rim. Degli Ereini. (4) QUADRIO, Stor. E rag. Di ogni Poes., Lib. I, Cap. 2; ARENA PRIMO sul giornale l’Occhio, n. I. Palermo 1836 (5) DRAGO DOLCETTA, op. cit. |
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La poesia ebbe culto in Naso assai prima del secolo XVI, per le ragioni testè significate. Però non ci son pervenute memorie di là di quel tempo, sia per le mancanti o poco diffuse cognizioni tipografiche, sia per la negligenza nel conservare gli antichi manoscritti. Ma dal secolo XVI in qua, la poesia noverò in Naso mezzani ed illustri cultori; dei quali ricorderemo pel primo Gian Dornenico Gallerano notaio (f. v. il 1546). Scrisse egli un poemetto in vernacolo su la Vita miracoli e morte del B. Cono da Naso, edito a Palermo per Matteo de Maida nei 1556, e che avea già composto sin dal 1549'- secca e veridica enumerazione delle gesta di quel santo, temperata da qualche morbido verso; allettante però il popolo, che a quei tempi dovea saperlo a memoria. Venne dopo Mariano da Naso, cappuccino, (m. il 1588); frate di vita austera e immacolata (1), ricevè le lodi del Boverio (2), e la venerazione dei suoi tempi. Compose un ufficio in onore di S. Cono, che fu cantato con applauso sino a quando Pio V vietò gli uffici particolari. Trovansi in esso cinque inni bellissimi, il secondo dei quali (Chori coelesfes intonent) pieno di nobili idee e di un ritmo maestoso. ---------- (1) Di questo pio e dottissimo uomo esiste ancora il ritratto a pennello nel Convento del Capuccini. Una dolce e serena fisonomia, un piglio amorevole e benigno: sembra ispirata; e sottovi leggonsi queste parole: “ — Rev. Pater Marianus a Naso concionator capuccinus, qui verbi Dei praedicationem cum aliis virtutibus cumulavit et prophetiae dono preditus, multis miraculis clarus, in hoc Conventu Nasi diem clausit. Anno Dni: 1588 ”. (2) Tom. 2 ad ann. 1588.
Seguì poi Mario Albiosi (m. il 1690 (3). Fu egli prete e Canonico di S. Spirito nella Chiesa di Naso; di dolce e gentile temperamento, coltivò la musica in che riuscì mirabilissimo, e massime nel canto, dotato com'era di voce soavissima e rara. Morendo lasciava una Selva di canzoni siciliane(4), a noi non pervenuta. Per queste doti venne chiamato l’usignuolo dei suoi tempi(5)
In più arduo campo volle lanciarsi Gian Giacomo
Cuffari (f. v. il 1635)- Medico dotto, si scagliò prima contro
coloro che abusavano del tabacco, analizzando i mali possibili di
questa pianta, in una memoria titolata appunto:
Dei biasmi del Tabacco e dell’uso pernicioso di esso
(Palermo presso Nicolò Bua 1635). Studiò dopo la teologia, e si
provò nell'oratoria scrivendo due panegirici in lode di S. Francesco
di Assisi e S. Francesco Saverio (Messina presso Brea 1635): lavori
tutti divenuti oramai rarissimi. Ma in più arduo campo — come testè
dicevamo — volle avventurarsi, quando prese a colorire il disegno di
un poema epico-sacro su la
Vita del glorioso Santo Cono nasitano,
pubblicato in Messina per Gian Francesco Bianco nel 1636(6).
—La poesia epica è l'espressione di un quadro immenso; canta
l'origine di un popolo, o il sorgere di una nuova civiltà: ha sempre
per oggetto principale la dipintura di un carattere sublime — dice
il Tedeschi — di un essere tipico, non dominato da passioni, ma
spinto solo da una forza arcana e prepotente o verso il puro bene, o
verso il puro male: esempio, Cristo e Satana; e quindi Klopstoc e
Milton! — Sicché al Cuffari ostava sovrattutto il tema; e s'anco
questo si voglia buono ad epopea, ostava il disegno e lo scopo, che,
per soprammercato ei coloriva esattamente come l'avea pensato,
quello cioè di far del Santo una biografia fedele ed inalterata.
Però verità e poesia mal si accozzano; avvegnachè la poesia è sempre
e in qualunque modo un canto, una commozione dell'anima, ch'esprime
il bello in forma fantastica, e più che al vero pende al verosimile,
e più che al verosimile va al puro ideale; estrinseca un mondo di
fantasmi luminosi e sublimi, con cui si alletta, di che s'anima e di
che vive. Cose tutte sconvenevoli al tema del Cuffari; il quale, a
conti fatti, era, per le contingenze storiche in che si trovava,
negozio da leggenda e non da epopea. Comechefosse, ei s'imbarcò, e
fè male; qualche menzogna dovette dire, onde scemò il credito alla
sua storia; peccò di freddezza; patì d'imaginazione. Di che, lungo
il suo lavoro, che non passa i tre canti, se togli l'episodio
dell'apparizione di S. Basilio e della Passione, il resto è pura
cronaca tradotta in versi. Di versi nondimeno se ne incontrano
bellissimi, e spesso accanto ai freddissimi: come la descrizione di
Naso, il colloquio di S. Basilio, e tutti quegli altri che
riporteremo altrove (7).
II merito dei quali cresce dippiù,
ove si pensi che il poeta viveva in pieno seicento,
fra i deliri del Preti, del Marini, dell'Achillini, quando si
facevano sudare i fuochi a preparar metalli, e aveansi le stelle in
conto di zecchini della banca celeste. E il Cuffari piacque, e fu
lodato e plaudito dappertutto, con lettere, con canti e con sonetti;
fra quali ci piace ricordare il seguente, composto da Nicolò Lisso,
messinese: (3) Erra il Gesuita Piccolo (ms° cit.°) facendolo morire al 1686 (V. Lib. IV, App. Gen. Iscr. XXXIX) (4) MONGITORE, Bibl. Sic., Tom. 2. (5) Così si legge nella descrizione della sua tomba (V. Lib. IV, App. Gen. Iscriz. VVVIX. (6) La dedicava ai tre giurati dell’Università di Naso, Dottori Giovanni Couades, Baldasserre Galbato, e Giò: Dominico di Nardo. (7) Vedi appendice a questo libro.
Urania svelse, a farti il capo adorno Di nobil cerchio, in cui, del tempo a scorno Germogliar si vedranno eterni onori:
Vedrà, malgrado suo, l'invidia fuori Del termine di Alcide al Gange intorno Trasvolar la sua fama, e far ritorno Ove declina il Sol gli alti splendori.
Vero agli auguri miei presagio fia, Or che del sacro Regno al colle aprico Formi divino augel sacra armonia;
Io de' tuoi fregi all'onorato intrico Avrò fra tante glorie ancor la mia, Poiché a tanto valor son fatto amico.
Oltre a ciò, il Cuffari venne chiamato dal dotto Mongitore(8): Philosophus et medicus, doctor expertissimus: poeta etiam non vulgaris; e dal de Mastro(9): medico sperimentatissimo. Posteriore al Cuffari fu Ignazio Augello (m. sul finire del secolo XVII). Sacerdote di eletti costumi, versatissimo nelle lettere; predilesse la poesia latina, ed amò Virgilio sopra gli altri poeti. Di lui non ci resta che una bella iscrizione in versi(10), la quale dimostra quant'egli valesse nella difficile epigrafia. Si distinsero eziandio Rosario Salpietra dotto sacerdote (m. il 1743) e Francesco Paolo Catena (m. il 1743)- II primo, fondatore dell'Accademia dei Geniali in Palermo; il secondo della Tertullio-medico-spargiritica di Siviglia. Ambi celebrarono l'incoronazione di Carlo VI in Palermo(11). Ma sopra tutti volò sublime Filippo Cangemi (m. il 1857). Di cui fra breve tornerà il discorso. Strenuo cultore della letteratura latina, scrisse epigrafi, carmi, ed inni, in cui fe' sentire la grazia e soavità catulliana, spesso la concisione di Tacito. Onde di lui meravigliarono i più chiari filologi del tempo. Di tanti ed eletti ch'ei morendo lasciava, abbiam scelto il Carme Monacationis, composto verso il 1830, nell'occasione che una vaga giovinetta, abbandonando le blandizie del mondo e del domestico asilo, chiudevasi nel chiostro: lavoro delicatissimo per copia d'imagini, di pensieri, di affetti, e per una cotal maestà ed eleganza di verso, che ti empie di dolcezza e di entusiasmo. A vederlo tuttavia inedito, ci è saputo di tanta pena, che, tradotto nel miglior modo che per noi si potea, abbiam stimato pubblicarlo qui appresso; certi di far cosa grata ai nostri lettori, e di rendere un tributo di amorevole riconoscenza alla memoria del venerando scrittore, che, vivente, ci volle un gran bene(12). Nel Cangemi è l'ideale cristiano che irradia e vivifica la forma pagana: questa anzi poco a poco, pur ritenendo l'antica maestà, freschezza ed eleganza, — naturale, spontanea, senz'affettazione, — si fa biblica, arieggia al lirismo dei salmi e delle profezie, si cristianizza anch'essa. E la frase virgiliana; ma in fondo trovate David, Abacuc, Geremia. Guardate nel Carme Monacationis'. con. frase pagana, che vi ricorda Ovidio, eccovi in due versi mirabilmente scolpita la teorica cristiana della predestinazione: ------- (8) Bibliot. Sic., Tom. I, (9) In causa pote. Medic., pag. 57. (10) Riportata appresso. V. Lib. IV, App. Gen. Iscriz XXIV.
(11) Componimenti recitati dagli Accademici Geniali
di Palermo a 23 settembre 1720, per la solenne acclamazione di Carlo
VI. ec. Palermo, presso Vincenzio Toscano 1720. II Salpietra diè
all'Accademia il motto:
quod licet libet.
II Catena esercitò splendidamente la medicina in Palermo, ove venia
chiamato il medico dell'acqua per le ammirabili cure che vi facea
coll’uso della neve e dell'acqua gelida.
Ante mare, et terras, suspensaque in AEtere signa, Ut placeas mihi, te finxi, te mente notavi.
Guardate nel Carme
De Magorum Adoratione.
Il più vecchio fra i Magi vede la stella; e, muovendo dubbi a se
stesso di quella meravigliosa apparizione, finisce con intenderLa di
presagio felice. Com'è sublime quella cometa! — Essa, più splendida
del Sole, pende là senza oriente: Quod rutilum superat fuscantem Sidera Solem? Non hic terrificum minitantem. Gentibus omen, Sanguineoque trucem video nunc crine Cometen. Promit regalem. arcana sub imagine cultum Stella micans: tremulo lucis circumflua limbo Ecce clamys: lato cervix protentaque gyro Instar Gnossiacae, sustentat fronte coronam. Ut reor, haec magni, nec fallor, nuncia Regis. Cioè: Dond'e che nuova Stella colà senz'oriente pende Più splendida del Sol che gli astri offusca? In lei presagio minaccioso e truce Per le genti non veggio, e né ferale Cometa io scorgo dal sanguigno crine: Una fulgida stella un regal culto Sotto mistica imago a noi rivela: Ecco 1'ondosa clamide da un lembo Tremolante di luce irradiata; E la cervice in ampio giro, a guisa Di Ginnosa dipinta, in su la fronte Un diadema sostien: ah! non m'inganno... Del Re celeste messaggiera è dessa!
Guardate come questo Carme nobilissimo si chiuda con la profetica ruina di Gerusalemme. Qui la forma pagana è affatto sparita: non e più Ovidio, non più Virgilio, non Catullo che ispirano il poeta: è la grandezza biblica che si eleva sul ritmo latino; e la lira cristiana che su i ruderi del mondo pagano canta l'inno supremo della nuova e verace poesia. Gerusalemme, benché ammonita dai suoi innumeri Profeti, sconoscerà il Redentore, il Padre dell'Alleanza, quegli a cui stan servi e la luce e le tenebre, e i tempi e l'Averno, e la Morte e l'acqua, e il fuoco e l'etere e la terra. Fanciullo, ella lo perseguiterà, lo finirà adulto... ma! Vindex ille tamen surget: dabis improba poenas. Agmina mille Ducuorum Borealibus acta quadrigis, Innumerosque trahens populos, ceu turbine vasto Excurrent, stragemque feret, ruet omnia late. Ipse emensus circum. immania brachia muros, Excutiet, verte, lapides ceu sparget arenam. Hinc, caecam immittet rabiem: calcandus et ipso Confossae Matris rapietur ab ubere lactens. Heu dolor! Urbs antiqua jaces miseranda, nec ultra Jam reddiva manu quisquam tua moeenia ponet.
De la vendetta: Pagherai malvagia Di tuoi delitti vergognosi il fio: Mille di Duci tempestose schiere Da boreali quadrighe, e da infinite Plebi condotte, qual'immenso turbo Strage apportando, scorreran tremende Per la vasta ruina. Egli medesmo, Là di tue mura nascondendo in giro Le braccia enormi, scuoterà le pietre, Siccome arena spargeralle ai venti. In un cieco furor quindi gli spirti Agiterà: E tu vedrai sinanco Da la mammella de la madre uccisa Il lattante fanciul rapito e pesto: Ed ahi! dolore, o Città antica, infranta Ecco tu giaci, nè saravvi alcuno Che nuovamente inalzerà tue mura!
Nel Carme Redemptionis, ove la fantasia gareggia colla profondità del pensiero teologico, divenuto luminoso, drammatico, affascinante, vi mette innanzi la terribile figura di Lucifero. Il quale si affaccia dall'Etna fumante, che trema e vacilla mentre una grande commozione agita tutta la terra, e la Calabria si stacca dal fuggente Peloro: che impeto lirico! che immagini peregrine! — Tasso e Milton, di cui l'odierno Carducci è una parodia a rovescio, vi appaion più belli nel Cangemi, che si avanza sovr'essi pur rimanendo singolarissimo. Il suo Lucifero è la potenza negativa negli ordini del Cosmo: nelle sue immagini egli vi appare, esteticamente, come un sublime dinamico; benché da un altro lato, e sempre quello che turba la ingenua e semplice giovinetta nel Carme Monacationis: Insidiis aptus Coluber, cui callida cordi Invidia; et tristes oculis liventibus irae.
Executiturque fremens, indignatusque trabali Saxa ferit sceptro. Siculae sonuere cavernae, Et cabala Hine refugo secessit terra Peloro, Nee mora: nutantis vasto cum murmure montis Prosilit, et rapidè superas jaculatus in auras Igne micans, flammasque vomens Moderator Averni, Ut stetit in summae fumoso vertice rupis, Prospexit circum, latè dimensus et Orbem, Primigeri, torvum cernens, Edenis in hortis Humanam (heu! Livor) sobolem speculator amenis. Ingemit, et statim furiis agitatur acerbis Concilium deforme vocat.
E’ poesia profonda, intimamente sentita, perché pensiero, fantasia ed affetto si succedono e si consertano mirabilmente. Lamentiamo la perdita del Cholera, altro poema del Cangemi stupendo di sensi religiosi e civili, per maestà di verso ed eleganza di frase. E speriamo frattanto che questi da noi esaminati possano insieme divulgarsi in omaggio di quella scuola che lavorò fra noi a cristianizzare il paganesimo, accettando dal vecchio classicismo unicamente la parola, che facea divenire strumento più nobile di verità e di educaziione civile; - scuola veramente ammirevole, e nella quale il nostro illustre concittadino non sarebbe mai lodato abbastanza. Contemporaneo al Cangemi fiorì Gaetano Pavone 8m. Il 4 febbraio 1860), che vedemmo da qui a poco ricomparire nella categoria delle scienze mediche. Di mente robusta, non vi fu cultura a cui non fosse disposto: studiò la storia, e segnatamente la siciliana. Questa amò da filosofo, da poeta assai più; e imprese poi a svolgerne i fatti piùmemorabili in una serie di tragedie a quella guisa medesima che lo Shakspeare volea fare colla sua Inghilterra. Con tale intendimento, non potuto colorire colorire intieramente per le occupazioni della sua professione, e poi per la morte immatura, scrisse egli e lasciò inedite varie e pregevoli composizioni drammatiche. Difatti delineo nella Bianca Siffredi i tempi caliginosi di Martino; nella Sposa di Messina, imitando lo Schiller a traverso agli affetti di famiglia, fe' trapelare lo spirito pubblico dei tempi; e nell'Uberto Squalori dipinse le gare feudali ai giorni di Federico imperatore; il carattere fiero dei baroni; l’empietà di un tradimento svelata, mescendovi le rimembranze dei tempi di Guglielmo il Malo. Due sono i caratteri più grandi di questa tragedia: Sigismondo, il fiero Conte, che nell'omicidio del figlio, vede più un'offesa dell'illustre posapia, che una profonda lesione dell'amore paterno; e la sventurata Imelda, tipo di affettuosa consorte(13). Costei negò amore ad Uberto, e sposò Eberardo, nel solo fine di comporre le lunghe dissensioni tra la sua famiglia e il Conte di Enna, padre di Eberardo. Ma era amata eziandio dal fratello di costui, Beltrando; il quale addolorato di quel matrimonio, va guerriero in Palestina. Ritornato, trova morto il fratello, e vedova la povera Imelda; inconsolabile il padre, il fiero Sigismondo; massime perché Eberardo è caduto vittima di un tradimento, nè è noto il traditore. Però viene Uberto, e coglie Sigismondo in una trama nerissima, ordita da lui, vagheggiando il pensiero di vendicarsi d'Imelda, la dura donna, che aveagli negato amore. Fa dunque sapere a Sigismondo essere stato morto suo figlio dal proprio suocero, il padre d'Imelda, e dal vescovo di Agrigento per non aver voluto aderire alla ribellione, meditata da alcuni baroni contro Federico. Divampa Sigismondo, ritorna alle antiche furie; ma via via , l’empietà di Uberto è svelata; si sa ch'è lui l'uccisore del povero Eberardo, — scopo, la vendetta d'Imelda, — e viene ammazzato in quel castello, ov'egli scelleratamente avea meditato la morte di Sigismondo, di Bertrando, dei congiunti tutti d'Imelda, e la conquista di quel castello e di quella signoria. Di argomenti stranieri ne trattò un solo il Pavone, e fu il Baleazàr, primo tentativo probabilmente della sua tragica carriera, perché ci è parso il meno compito fra tutti. Lo volle informato allo spirito greco, dipingendo 1'uomo in lotta col fato: pensiero ch’egli esprimea in quei versi, che si leggono nell'Atto I Scena I,
Virtù seguir, figlia che giova, quando Malgrado il nostro cuor, verso il delitto Ci strascinan gli Dei di noi più forti?
--------- (13) Vedi appendice a questo libro. Il Pavone venne deposto nel cimitero provvisorio dei Cappuccini. Gli diè l’estremo vele il letteraro Pietro Gambino, palermitano, che disimpegna allora in Naso l’ufficio nobile di educatore della gioventù.
Facciamo voti perché tutte queste tragedie si dieno quanto prima alle stampe pel rispetto alla memoria dell'egregio uomo, e pel decoro della patria. Ci piace finalmente ricordare in questo breve sguardo su la poesia nasitana i nomi di Francesco Paolo Milio (m. il 1861), e di Nicolò Trassari Lo Re (m. il 1871). Facile e copioso verseggiatore il primo, lasciò un gran numero di odi, canzoni, inni, scherzi, satire e carmi, tuttavia inediti. Intelligentissimo giurista l'altro, si conobbe eziandio di lettere e del latino idoma, in cui detto commendevoli versi (14).
II nostro egregio amico Gioacchino Crimi (vivente)
ha sparso sui più reputati giornali italiani pregevolissimi
componimenti di lirica nuova e sentita, che vorremmo rileggere al
più presto raccolti in un volume. ------- (14) V. Lib. App. Gen. Lett. A. Iscriz.IX |
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§ 4. Cronologia,
Leggenda e Storia.
Il desiderio d'illustrare i patrî monumenti, di svolgere e chiarire le patrie vicende, si svegliò in Naso assai tardi; e, svegliato, si volse quasi tutto a ciò che oramai non richiedeva studi ulteriori, ulteriori ricerche, perché abbastanza già noto, abbastanza illuminato: il Navacita (1). E fu un primo male. Si concentrò quindi in lui, e per trattare di lui unicamente sprizzò qui e cola una scintilla su le patrie cose: e fu l'ultimo e il maggior male, come altrove (Lib. I) notammo. — Il solo che si sottrasse in certa guisa a questa a questa smania fu Girolamo Lanza (f. v. il 1620). Dottore in teologia, Economo nella vacanza dell'Arcipretura al 1627 per la morte del Vallerano, si diè primo a razzolare nelle antiche memorie; e in un prezioso manoscritto, mutilato ora dalla forza del tempo e dalla negligenza di chi il conservava, raccolse gli usi e le costumanze ecclesiastiche del paese, in gran parte cadute in disuso, toccando qui e colà, però fugacemente, qualche punto di storia civile. Il suo lavoretto che titolava: Fioretti delle Antichità di Naso, ha tutta l'aria di una cronaca vetusta, scritta senza critica, in un vernacolo, ch'è un pasticcio, e con frequenti sconnessioni. Però la stessa umiltà dello stile, la ingenuità nel racconto dei fatti amminicolati, concilia all'autore quel rispetto dovuto alla verità; e di lui, noi spesso, in quel poco che ci potea, ci siamo giovati, siccome di una voce amica che arrivava dai rottami di due secoli, favellante di cose, a molte delle quali era stata coeva. Giacomo Muccione (m. in Marsala a io luglio 1631). Si arruolava alla Compagnia di Gesù, ove trovò agio a sviluppare il suo ingegno, vago di lettere. Scriveva in buona e corretta lingua italiana una Vita di S. Cono, pregiata per le notizie su la immagine di N. S. di Capo di Orlando, che, per la sopravvenuta morte dell'autore, restava inedita. Con lingua e stile più accurati, e con mirabile disinvoltura, scrisse del Navacita Pietro Drago e Dolcetta (m. a 21 maggio 1753); ecclesiastico erudito, oratore chiarissimo, come lo chiama il Mongitore: concionator eruditione et eloquentia clarus(2), stato già Luogotenente di Arciprete al 1739, II suo lavoretto, Vita e glorie di S. Cono, ha tutte le ispirazioni e le grazie di una leggenda; onde meritò, cosa rara a quei tempi, il privilegio di una celere ristampa(3). In questa briga, in questa smania di scrivere e ricantare la biografia del Navacita, volle toccar l'ultimo, il grado più eminente Ignazio Mario Piccolo (m. sul finire del secolo XVIII), della Compagnia di Gesù. Raccolse di qua di là, di su di giù, quanti poté documenti e notizie; e volendo dar l'ultimo colpo a quell'argomento vecchissimo, ci fornì una perfetta enciclopedia Coniana. Gli uscì di mano, in tal guisa, un lavoro lunghissimo e intricatissimo, in cui sovente, per la necessità del soggetto, si lasciò fuggire molte notizie su la sua patria; delle quali ci siamo talvolta, col dovuto accorgimento, giovati nella compilazione del presente lavoro. Però il Piccolo potea darcene di più, potea chiarirci più largamente sul nostro passato; ma il fervore del suo tema gli vietò di farlo, e fu peccato grave. Prese spesso abbagli, nocque sovente alla credibilità dei fatti narrati esagerando, e uso, in generale, lingua e stile poco pensati. Ma poiché lunga è la sua opera, e non sempre conserva quell'unita richiesta in simili componimenti, così delle buone cose a quando a quando si trovano. La morte sopravvenutagli quando appena aveala fornita, crediamo fosse il motivo perché si rimanesse da li a poi manoscritta ed inedita (4). Ai nostri tempi Saverio d'Amico (vivente), Consigliere di Corte d'Appello, pubblicava in età giovine le Ricerche su le antichità di Alunzio, accuratissimo lavoro, che venivagli lodato. Secondava ora il progresso critico della storia Camillo Collica Accordino (vivente), dando alle stampe l’Origine storica e politico delle lettere del secolo XII (Napoli 1874); in cui ha preso a svolgere con purgatissima lingua e sano discernimento, il grande concetto che “la emancipazione morale, e la redenzione delta lingua e delle lettere in Italia vennero dallo spirito inquieto di libertà municipale degl'italiani; e nella lingua e nelle lettere rigenerate da questa libertà, gl'italiani precorsero a tutte le altre nazioni europee; e L'ltalia ottenne il primato della cultura in Europa ”. Un siffatto lavoro lodava il Castiglia, e la stampa più eletta della penisola. Con stile modesto, ma con schiettezza, acume e coraggio invidiabili, Giuseppe Buttà (vivente) narrava le vicende del Regno di Napoli da Carlo III ai di nostri nelle opere — I Borboni di Napoli ai cospetto di due secoli “vol. 3) — Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta — (vol. un.) — Edoardo e Rosolina — Romanzo storico — (vol. un.). ----------- (1) Di esso trattarono: La Leggenda Greca tradotta dal Maurolico, e riportata qui appresso (V. Lib. IV, Appen. Gen. Lett. Q); la Leggenda latina di un Arciprete quasi contemporaneo al Santo; il P. Ottavio Gaetano; i Bollandisti; il Breviario della Chiesa palermitana; il Catalogo dei Santi del Ferrario; l'Effemeridi del Bescabe; il Perdicato, l'Aprile, e il Carrera; qualcosa anco il Fazello. Cantarono poi del Navacita: Gian Tommaso Lombardo (1590) da Castroreale; e Antonino Magri da Frazzanò (1700), in due poemi divenuti ormai rari. E malgrado tutti costoro, furonvi quegli altri di seguito, noverati nel testo. (2) Bib. Sic. ibid., Tom. 2. Erra però facendolo morire al 1710. (3) In Messina presso Amico al 1698; l'anno stesso a Palermo per l'Adamo; al 1699 pel medesimo, e infine presso Giuseppe Grami in Palermo al 1703. — Ci siam tenuti di riportare in questa categoria lo scrittore della Cronaca del secolo XVIII, tante volte da noi citata, perché voile conservar l'anonimo. E per essersi perduti gli scritti, che trattavano pure del Navacita, abbiam taciuto di Giuliano Montefosco e Giuseppe Sangiuliano, entrambi nasitani, vissuti al secolo XV.(4) Porta il titolo: Della Vita, virtù e miracoli del gloriosissimo S. Conone, Abate Basiliano, Cittadino e di Naso. Ora amantissimo Padre e Protettore. |
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Questa, disgraziatamente, e la categoria dove più abbondano gli uomini, e mancano gli scritti. La religione cattolica, in Naso, accolse nel suo seno, in ogni tempo, valevoli ministri, promossi a cariche illustri; oratori che seppero agitare e commuovere con la profonda ed eloquente illustrazione della Bibbia, del Vangelo e dei Padri; ma una condannabile desidia, una inopportuna. modestia fece che i loro lavori si giacessero in un canto ignorati, e successivamente andassero perduti. Sicché dal secolo XVI a noi troviamo gli oratori, i dotti prelati; ma di molti ne ignoriamo gli scritti. — Primo fra tutti ci piace annoverare Ludovico Contruscerio (m. il 1520), Vescovo di Cartagine, pio e facondo oratore (1); e quel Francesco Perlongo (m. a 37 anni in Petralia Sottana il 1691), che dopo aver preso laurea in legge, abbandonando la camera forense, toglieva a 20 anni l'abito cappuccino. Di vita perfettissima ; esempio mirabile di carità, fu tenuto in concetto di santo, e cosi adorato, come tuttavia in Petralia Sottana. Efficace predicatore, colla parola rude ed eloquente del volgo, ispirata alle nobili verità religiose, seppe correggere ed ammorbidire cuori induriti e apostemati nel vizio; scosse e affascinò moltitudini; entusiasmò siffattamente che un giorno lo videro sul pergamo abbracciare miracolosamente dal vicino Crocifisso. Noi non concordi tutti i biografi del Perlongo(2), per un donna di fede: diciamo unicamente che grande aveva a essere il suo merito, potente la sua parola nella difficile arte di commuovere evangelizzando. Dopo il Perlongo troviamo Carlo Galluzzo (m. il 6 febbraro 1592), teologo, Canonico della Cattedrale di Palermo e Abate di S. Ermete. — Cono Alberto (f. il 1646), Cappellano regio nel Supremo Consiglio d'Italia in Madrid, Abate di S. Filippo, di S. Lucia di Milazzo; anche lui Canonico della Chiesa palermitana e Abate di S. Ermete(3). Antonino Franchina Perlongo (m. il 1743)'; capitano d'infanteria, passò la sua giovinezza nell'esercito di Savoia: lasciata la milizia, prese a studiar calorosamente le scienze sacre, e dottorossi in teologia: salì quindi a nobili cariche. Da Carlo VI ebbe un canonicato nella Chiesa di Palermo, e l'Abazia di S. Ermete; fu poi esaminatore e giudice sinodale; Inquisitor fiscale; e al 1734 Inquisitor di Sicilia, il cui Sacro Tribunale governò per molti anni solo, senza colleghi e splendidamente. Tre volte giudice sostituto; giudice interinario eletto di Monarchia; nominato primo inquisitore nella nuova Inquisizione siciliana, e con regia approvazione da Monsignor de Ciocchis fatto primo Deputato della real visita delle Chiese siciliane (4): cariche tutte che fann'ora fede dell'eminenza e vastità del suo ingegno. Pietro Piccolo (m. in Palermo il 1731). Parroco del SS. Salvatore, e Antonino Piccolo, Arciprete (m. il 1747)) ambi assunti al Vicariato generale; il secondo Avvocato fiscale, e Visitatore della Diocesi di Messina ai tempi dell'Arcivescovo Migliaccio.Bernardo Dolcetta (m. in Palermo il 1760); spirito fiero, costante ed alacre; onorati i tribunali supremi del regno, vestì poi l'abito di prete e fu Vicario generale di Monsignor Galletti Vescovo di Patti. In Naso, Parroco di S. Pietro, tenne viva quella celebre lite delle preminenze Arcipretali, di cui parleremo diffusamente nel Libro IV. Fu, come si raccoglie da talune sue memorie, di varie erudizione, e molto addentro nelle dottrine canoniche(5). Antonino Augello, fratello d'Ignazio (m. in Petralia il 1696); si distinse in teologia, e in lettere latine; di che, venne eletto esaminatore ordinario dell'Arcivescovo Cicala e Beneficiale di S. Antonio in Messina; indi Giudice sostituto di Monarchia, e finalmente moriva Arciprete di Petralia sottana. Giovan Battista Dolcetta, fratello a Bernardo (m. in Naso il 1695)) venne chiamato il Principe della teologia in Palermo(6), e preferito in tutti i concorsi ad ecclesiastici benefizi. Difatti, fu Arciprete di Sinagra, poi di Nicosia e Capo di quella Collegiatà, e infine di Petralia inferiore. Il Conte Antonino Perlongo, figlio di quell'Ignazio, di cui qui appresso si dirà, studiò in Roma; e dopo passato nella milizia austriaca la sua giovinezza, ottenne una pensione di 500 scudi annui su l'Abazia della Maggiore. Abbracciata quindi la vita chiesastica fu consacrato sacerdote, ed assistito nella prima messa dal suo reggimento. Fu eletto poi Abate di S. Maria del Parto in Castelbuono, dove morì. Il Conte Giulio, suo fratello, e ultimo dei figli d'Ignazio, venne educato nel Collegio romano, e fatto indi Priore di Nicosia, Abate di S. Maria de Lacu di Naso e di S. Lorenzo di Noto, e finalmente Canonico del real palazzo palermitano. Cherubino Galbato (f. nel s. XVII), della Compagnia di Gesù, detto comunemente il P. Nasino; uomo dotto e di elevatissimo ingegno, insegnò con plauso le più gravi scienze dalle cattedre di Napoli e di Roma, e dal suo gran maestro Scoto venne chiamato lo Scotino. Fu poi Lettor giubilato, e tenuto in sommo concetto per la sua vasta letteratura. Nel nostro secolo levaron di sè nome elettissimo Filippo Cangemi, di cui altrove toccammo (§ 3), e Giuseppe Lanza (m. il 1864). ll primo studiò a Palermo per molti anni; venuto poi a Naso ritiravasi in una sua villa deliziosissima di faccia ai colli sempre verdi del Fitalia. Da questa solitudine il traevano a forza per esser nominato Parroco del SS. Salvatore, e poi Arciprete della Chiesa Madre; dietro due splendidi concorsi che meravigliarono e stupirono la Curia pattese. Lungo il suo pastorale ministero dettò prediche, sermoni, colloqui ed omelie, temperati di quella semplicità e schiettezza, conditi di quella piacevole ed opportuna erudizione, cotanto raccomandate e così poco intese dalla gran parte dei nostri predicatori. Straordinario uomo, in cui le potenze affettive avean quasi predominio su quelle ideali, ei predilesse di parlare al cuore, e nella commozione degli affetti ei riuscì mirabilissimo. Morendo, quando già era stato eletto Vescovo della Diocesi di Cefalù, lasciò una lunga serie di scritti, quali forniti, quali dimezzati, tutti poco o nulla corretti, avvegnachè la eccessiva umiltà dell'autore non pensò mai di destinarli alla stampa. II Lanza studiò anch'egli a Palermo; e amato quivi dall'illustre teologo Filippone, ebbe offerta casa e biblioteca. Forniti i suoi studi, ritiravasi in Naso; ma invitavalo a Lipari il Vescovo Visconte Maria Proto, e dandogli la missione di Vicario generale, lo mandava alla visita dell'isole dipendenti da quel Vescovado. Mutatosi novellamente in patria, continuò a seguire il ministero di sacro oratore, e salì i pergami più riputati del regno. Chiamato a Patti del venerando Vescovo Saitta per recitarvi il quaresimale, levò tanto plauso che il dotto prelato nominavalo Rettore e Professore di sacra eloquenza in quel Seminario. Eletto con regio diploma di Francesco I Abate di S. Maria de Lacu in Naso, era, passati pochi anni, Parroco del SS. Salvatore. — All'oratoria sacra egli ebbe felice e singolare attitudine. Allo studio profondo dei Padri, della storia e delle scritture, a un gusto delicato ed eletto, a una fantasia splendida di copiose e affascinanti immagini, univa il dono della voce, della mimica e della persona veramente maestosa. — Di scritti poco lasciò; cosa mirabile davvero, egli, massime negli ultimi anni, improvvisava dal pergamo, recitava orazioni stupende col solo sussidio di brevi appunti sbozzati appena su bocconi di carta. Dalle composizioni rimaste, e scritte in giovinezza, benché neglette, lasciate incompiute, e come venner giù nel primo fervore, si argomenta il suo stile armonioso, robusto, talvolta anelante, imaginoso sovratutto; perocché l'elemento fantastico predominava in lui su le potenze affettive (7). Per queste doti, il ricordato Saitta, in una lettera diretta al Cangemi, ebbe a chiamarlo: nuovo Demostene sacro. Le scienze sacre, dopo lui e il Cangemi, vantarono ancora in Naso una serie di egregi cultori; fra i quali, Agostino Monforte (m. il 1857) dell'ordine dei cappuccini, purgato oratore, severo filosofo e buon matematico; come rigido censore dei costumi, e amantissimo della gioventù.
Francesco Lo Re (m. a
20 gennaro 1860) strenuo canonista e teologo. — L'Arciprete Biagio
Cuffari (m. il 24. febbraro 1863); e finalmente l'Arciprete Giacinto
Trassari (m. in S. Agata il 1870). Teologo e filosofo esimio, seguì
le teorie di S. Tommaso e Galluppi; e come nella religion
Domenicana, ove fu eletto Padre Maestro, svegliò ed istruì tanti
nobili ingegni, sveglio ed istruì per lungo tempo la gioventù
nasitana, guidandola con affettuosa cura sui campi del vero. (1) Le sue ceneri riposano nella Chiesa dei Minori osservanti, nella cappella di S. Giuseppe.
(2) Fra quali fr. gaspabb da petraua ex Provinciale
dei Capuccitii. Del Perlongo, nel nostro Convento,
si
vede tuttavia il ritratto a delicato pennello: un aspetto umile e
addolorato, un atteggiamento che ti empie di riverenza e divozione.
Sotto sonvi queste parole: —
Venerabilis Pater Franciscus Maria a Naso Perlongus,
Theologiae Lector, missionarius acerrimus errantes innumeros reduxit
ad paenitentiam; paenitentiam ipse innocens coluit a puero. Dum
concionaret a Domino Jesu visus amplacti. Loca remota pluries vidit:
futurum praevidit. Inter sanctitatis plausus obijt in Conventu
inferioris Petraliae, 14 Augusti 1691: aetatis 35°, religionis 17°:
Ibi miracula plurima orantibus in dies impetrat. —
Erra, e gravemente il ricordato fr. gaspare da petralia nel Cap. 1°
del suo lavoro sul Perlongo, anzi quel Capitolo è una filza di
storiche antinomie e d'incoerenze; sostenendo, fra le meno grosse,
che Naso venne fondato dal Conte Ruggiero!!!...
(6) PICCOLO, ibid. |
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§ 6.
Filosofia, Diplomazia e Giurisprudenza. Quando il diritto studiavasi ancora nelle università siciliane, come una larva senz'anima e senza vita, sorgente dai capitoli reali, dalle prammatiche de' Vicere, e dai testi pratici di Giustiniano, soffocati nell'empirismo della glossa: quando le giovani intelligenze, ristrette nelle aride illustrazioni dei brocardici, non sapevano, non potevano elevarsi a un ordine ideale agatologico; sorgeva un uomo, un genio; il quale, studiando e meditando profondamente i progressi del diritto nella Germania e nella Francia, senza copiarne le teorie, oppugnandole spesso, dava per primo un corpo di diritto filosofico alla Sicilia; sollevando in tal guisa la gioventù studiosa, richiamando i giureconsulti dell'isola all'ordine supremo e razionale della scienza. II diritto positivo non è possibile senza della legge universale; non può comprendersi, non può illustrarsi senza 1'accurata cognizione di questa. — Ecco il grave annunzio, ecco il preludio di una scienza nuova. Dotti e giovani si destarono, si concitarono, stettero ansiosi a sentire. Quest'uomo sommo, questo genio era Carmelo Contrusceri, nato in Naso, cresciuto in Naso, e stato uno dei membri del corpo giuratorio(1). Ritiratosi egli a Palermo, entrò in amorevole dimestichezza con l'insigne letterato ed Arcivescovo Giuseppe Gioeni; il quale poco a poco, conoscendo i rari meriti del filosofo nasitano, aderiva agl'impulsi di lui, fondando in quella Università, a decoro della patria, una cattedra non pria veduta, di diritto filosofico(2). Fu allora che il Contrusceri imprese a pubblicare l'opera, di che sopra abbiam detto, col modesto titolo di Istituzioni di Giurisprudenza Naturale (3), quando non peranco lo Spedalieri avea concepito la sua. — Svolse in quattro lunghissimi libri la filosofia del diritto, desumendola subbiettivamente, dall'intima natura dell'uomo, non senza contemperare qui e cola la ragione alla fede, il verbo filosofico al verbo rivelato: grande progresso, che ai di nostri toccava il suo apice nella scuola del Torinese. Pel Contrusceri il diritto di natura propriamente detto e il medesimo che “ la scienza dei doveri e dei diritti, che ha 1'uomo considerate come uomo semplicemente, o sia di quelli, che derivano immediatamente dalla sua stessa ragione ed essenza: diritti in conseguenza e doveri, che l'accompagnano in tutti i suoi stati, che non suppongono alcun fatto umano per verificarsi, che non possono esser distrutti da alcun'altra legge sopravveniente (4) . I legislatori, diceva egli, di conseguenza, non possono formare un corpo di legislazione bene intesa, se non hanno presenti le sacrosante leggi della natura, di cui sono i legittimi interpreti e sostenitori (5) ”. — La legge naturale, la legge universale, e dunque pel nasitano filosofo il Logo da cui dee far ragione la legge positiva: principio grande e benissimo sviluppato; da cui, forse contemporaneamente, cavava il Filangieri, di la del Faro, la sua dottrina su la bontà assoluta e relativa delle leggi (6). — Svolse infine(7) Contrusceri le teoriche della sociabilità, della religione, della proprietà, dei contratti, della società coniugale e dello Stato: trattò distesamente il diritto pubblico, dividendolo in diritto pubblico propriamente detto e diritto delle genti; tocco con fino criterio le eleganti quistioni del suicidio, del duello e del lusso; contrasto Wolflo, Puffendorfio e Rousseau nella strana teorica del patto sociale: disse la società essere uno stato “in cui più uomini sono fra loro uniti per qualche fine” e la sociabilità essere ingenito istinto e bisogno dell'uomo; esser nata con lui'). Distinse sottilmente il diritto alla proprietà dal diritto di proprietà, trovando quello nell'istinto della conservazione e perfezione dell'individuo. Tutto poi in forma limpida, dolce, persuasiva; lontana da quel convenzionalismo in cui allora chiudevasi, in cui oggidi si chiude, la scuola alemanna. II che cresce meraviglia ed ammirazione, pensando come al secolo del Contrusceri una forma cosi aggiustata, cosi pensata, in argomento allora nuovissimo, era, e dovea essere, cosa rara e raramente veduta. E l'opera del Contrusceri piacque, e piacque assai; e molto ebbe a contribuire all'incremento della filosofia giuridica nell'isola; onde si propagò, si rese comune con diverse edizioni. E benché fosse lunga (8), benché in varie parti pagasse un pochino il suo tributo al sensismo predominante, fu per gran tempo il testo prediletto di tutte le scuole così private come pubbliche. — Oggidì, se il sistema del filosofo nasitano non fosse generalmente troppo subbiettivo; troppo attaccato all'analisi, più attinente all'ordine assoluto ed obbiettivo, potrebbe l'opera sua adottarsi, e mettere con profitto nelle mani dei giovani. Ad ogni modo, e pei tempi, e per le circostanze, in cui venne scritta, e per tutto quello che rapidamente noi abbiamo detto, il Contrusceri onorò con essa la sua patria, lascio alla Sicilia ciò che il Venosino chiamerebbe monumentum aere perennius.
Prima di lui si segnalarono in Naso,
nella giurisprudenza pratica, Ottavio Cuffari e Reliba, nel 1586
Giudice della Gran Corte Criminale, e nel 1593
della
Civile. — Vincenzo Pandolfo parimente Giudice della Gran Corte
civile nel
1590- — Ippolito Dolcetta,
che cinse l'istessa toga nel 1596; la quale onorava piu tardi, in su
lo scorcio del medesimo secolo, Francesco Cicero. — Girolamo
Calderaro, che circa il 1523 fu Assessore ordinario dell'Arcivescovo
Lignamine in Messina; e Benedetto, della stessa famiglia (m. il
1519). sommo giureconsulto(9). (2) E’ nella prefazione alla sua opera, così lo ricorda: “ Non ci resterebbe qui per terminare debitamente la nostra Prefazione che di rivolger per poco il nostro discorso alla rispettabile persona di Monsignor D. Giuseppe Gioeni e Valguamera, degl'illustri Duchi d’Angiò, degnissimo istitutore di questa cattedra, il quale nato con le più felici circostanze ha voluto impiegarle in vantaggio della sua patria ”. (3) L’ultima edizione è quella del 1817, Palermo, presso Giordano. (4) Lib. II Introd. Pag. 5 e seg. (5) Ibid. pag. ). (6) Scienza della Legisl., Vol. I°, Cap. IV e V. (7) Lib. II, Cap. I, pag. 4 e seg. (8) Egli compendiava poi nel suo Catechismo, elegante e utilissima operetta. (9) Vt Lib. IV App. Gen. Lett. A. Iscriz. XLVII
Per la sua vasta intelligenza, chiamavalo presso di se Carlo VI, Reggente del Supreme Consiglio d'ltalia in Vienna, decorandolo pro se et suis col titolo di Conte. Trovo qui il Perlongo un campo convenevole all'altezza dei suoi meriti; e nel 1726 veniva spedito solennemente in Italia per regolare il censimento dello Stato di Milano; poi creato membro del Consiglio Aulico di Stato e Guerra, insieme all'insigne eroe Eugenio di Savoia; poi per la felicita, la saviezza con cui disimpegnava le sue missioni, dall'alta mente dellImperatore era sollevato dalla toga ai governi; e sin dal dicembre 1736 designavalo Governatore di Mantova; quando la morte sopraggiuntagli in Vienna mentre egli disponevasi al viaggio d’Italia, lo rapiva a quella corte ed al mondo a 17 febbraio 1737 (11). Di lui si può dire, ciò che tacito del pio suo suocero: esser vissuto quanto alla gloria, benchè tolto nel buono dell’età, tempo lunghissimo, benchè ebbe il colmo dei veri beni, che consistono nella virtù oltre agli onori della toga e del governo. - Morendo lasciava il Perlongo inedite, e non si sa perché (12), una collezione di memorie di diritto pubblico e giurisprudenza siciliana, che l’illustre Gregorio (13), facendo voti perché venissero una buona volta pubblicate, giudicavale scritture classiche e magistrali. Il Conte Francesco Perlongo, primogenito di Ignazio (14) seguiva poi, e più splendidamente le orme del padre, e fu veramente Vir summus come al medesimo Abate Amico (15) l’appella. - Cominciò la sua carriera nel 1725 coll’essere Giudice della Gran Corte Civile di Palermo; poi ministro a latere Vicerè Cardinale Portocarrero, nella visita del regno; poi Maestro Razionale del Real patrimonio. Finalmente eletto da Carlo Vi Questore di Milano, e poi Senatore, passò, come già suo padre, ad occupare in Vienna il grado di Reggente il Supremo Consiglio d’Italia. Via via lo vediamo Gran Cancelliere di Milano, decorato col titolo di Duca, aggregate alla nobiltà milanese; sposata Eleonora Tassis della Torre, dama Veneziana, onorata dall'imperatrice Cristina di Woffembutel coll'insigne ordine della Crociera, veniva continuamente adoperato negli affari più ardui d’Italia, ed eletto dal Conte Abrensperg Traun Governatore di Milano, a Sopraintendente della giustizia militare di tutto l'esercito imperiale, con la suprema autorità del diritto di sangue e di morte, e d'intervenire nei Consigli di Guerra. Nel 1733 era inviato dall'imperatore alla Corte di Torino per mandare a rotoli la lega di quel Principe con la Francia: e chi sa dove il Perlongo sarebbe pervenuto se la immatura morte non l'avesse assalito in Milano il 16 agosto 1738, nella floridissima età di 45 anni (16). A lui contemporaneo fu suo fratello Conte Giuseppe, secondogenito d'Ignazio, che, per altra via continue la fama dell'illustre casato. Studiate le amene lettere nei Seminario romano, ottenne l'Abazia di S. Lorenzo di Noto, e di S. Maria de Lacu di Naso; e quindi il Priorato di S. Maria del Soccorso di Nicosia. Dalla carriera ecclesiastica passo subitamente alla politica; e, mutatosi in Germania, si distinse nelle Ambascerie a cui venne assunto dall'imperatore, siccome intendentissimo del giure germanico, e negli affari di Stato. Intanto da Gastone I Gran Duca di Toscana riceveva la Croce di S. Stefano, e poi spedito dall'imperatore nell'Aja in Olanda, coll'ambasciatore Conte Ofed, a disimpegnare importantissime missioni. Pei suoi eletti servizi godeva un'annua pensione di mille scudi sull'Abazia della Maggiore palermitana; ma soggiornando molto tempo in Luxemburgo, l'aria umida e le pessime condizioni atmosferiche di quel paese lo accagionarono in salute. Di che, lasciata la Germania, si riconduceva in Sicilia. Proposto dal Duca di Salas a Inviato straordinario del regno di Napoli, di fresco ridotto sotto lo scettro di Carlo, moriva in Palermo nel giugno 1742(17).Anche il terzo figlio d'Ignazio, Conte Gaetano, saliva a nobili cariche. Giovine ancora, di soli 25 anni, fu eletto Giudice della Regia Vicaria in Napoli; poi Avvocato Fiscale e Criminale in Parma e Piacenza, e poi Questore e Senatore di Milano (18). In su lo scorcio del secolo XVIII ebbe Naso nobili e profondi giuristi; dei quali nomineremo Mario Drago Martinez (m. il 1802) (19); e Gaetano Lo Re (m. il 1828). Questi, figlio a quel Nicolò, stato Giudice Civile del Sandoval (20), alle svariate cognizioni letterarie, latine e francesi, contempero una cultura profonda del diritto: di memoria singolare, egli poteva con grande agevolezza recitarvi tutte le leggi magistrali; di che si trasse innanzi una intiera provincia che veniva a consultarlo. Occupo la carica di Sindacatore elettovi dai Conti di Militello e Raccuja; onorò poi il foro lungamente; e morendo lasciava talune preziose memorie di giure civile e canonico, che fanno ora testimonianza della sua mente vasta, imaginosa e culta nel vario argomento della giurisprudenza (21). Ci piace concludere infine queste categorie col nome di Gaetano Parisi (vivente), nipote di quel Giuseppe, Consultore di Stato nei primordi del nostro secolo. Nella sua lunga carriera di Deputato e rappresentante della sua terra al Parlamento nazionale, ha avuto 1'opportunita di studiar da vicino i gravi difetti del nostro Diritto pubblico attuale; difetti ch'egli ha chiarito in un lavoro nobilissimo diretto ai suoi elettori; il quale ha riscosso le lodi della libera stampa, ed anco quelli de celebrati pubblicisti Seismith-Doda, Sbarbaro, Fiorentino, Magliani, e parecchi altri. ------- (10) Lex. Sic. de Naso
(11) PICCOLO, MS.° CIT,° (13) Diritto Pubblico, cit.° Introd. (14) PICCOLO, ms.° cit.°
(15) Lex cit.°
(17) Ibid (19) I funerali del Drago furono celebrati nella Chiesa di S. Pietro; e perchè il Parroco di questa permise a un laico di recitarvi il funebre elogio, venne sotto pena di onze 50 chiamato alla Corte Arcivescovile nel termine improrogabile di giorni quattro, per discaricarsi di simile condotta!!! - (Lett. Arc. sped. il 12 marzo 1802).
(20) V. Lib. IV, App. Gen. Lett. H. |
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Anche ai Nasitani sorrisero benignamente Esculapio ed lgea nei vari secoli; e ad imparar medicina andaron essi sino a Salerno, frequentando per lunghi anni quella celebrata Accademia. E oltre al Cuffari e al Catena, dianzi rammentati; e molti altri che ci faremmo lunghi a noverare, illustrarono in Naso quella scienza sin dai primordi del nostro secolo: Saverio Oliveri (m. il 184.6), chimico e medico egregio (1). Giuseppe Cangemi (m. il 1848) che l'illustre Gaetano Algeri, il famoso medico-legista, ebbe a chiamar dotto, in una sua memoria sugli effetti del Le-Roy A noi più vicino fu Gaetano Pavone, strenuo cultore delle scienze medico-chirurgiche. Lasciava, morendo, preziose scritture di fisica, di medicina legale, e di storia della medicina, che vorremmo, con le sue tragedie, veder pubblicate e diffuse quanto prima. Giovanni Raffaele (vivente), pubblicava un'opera vasta sli l'ostetricia; ed anco un Trattato sul cholera asiatico (1837), ch'ebbero dai dotti e dai filosofi onorata accoglienza. Lasciata un momento la scienza medica, ei si volse alla diplomazia, e fu due volte Deputato al Parlamento Nazionale. Sdegnato forse della vita politica, voile poi ritirarsi in Palermo alla quiete privata, dalla quale fu scosso con la nomina a Senatore del Regno. Ignazio Collica, mancato testè ai viventi con generale cordoglio (18 gennaro 1882), onorò Naso colla scienza medica, i di cui benefici largamente profuse nella sua patria per 50 anni, sottraendola a ferali epidemie, e alle febbri perniciose e intermittenti, nelle quali egli era di tal valore da trovare pochi riscontri in Italia. -------- (1) Di questa medesima famiglia fu DOMENICO OLIVERI, che ai dì nostri esercitò la chirurgia e la farmacia. In lui la carità e la pietà trovarono il più degno ministro, e il popolo nasitano il suo angelo consolatore. |
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SAGGIO D’UN FLORILEGIO DI SCRITTI INEDITI E RARI DI AUTORI NASITANI ANTICHI E MODERNI
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POESIA (SECOIO XVII) GIAN GIACOMO CUFFARI POEMA SU S. CONO (Squarci) APPARJZIONE Dl S. BASILIO AL NAVACITA(1) VANITA’ DEL MONDO
Tre lustri, e mezzo avea forniti appena (2)), E mostra segno di fiorire il mento, Ch'è spinto dal desio, che a vita il mena Religiosa, e n'à sommo contento; S'accende nel suo cor fiaccola amena(3), E va serpendo ogni ora ogni momento, Finché lo stato di Basilio elegge, Che agli altri è norma, guida, ordine e legge.
Basilio, il Magno a gran ragione detto, D'eroica virtù dotto e sovrano, Che à vinto ed abbattuto, anzi interdetto Con nota infamia il disleal Pagano, Mosso da Dio con providenza al petto Di Cono paria, gli porge la mano, Che non cada nel fango, ov'altri stanno Immersi e tinti (4) a lor perpetuo danno.
Gli dice: vedi, o figlio, che il fallace Mondo c'inganna con lusinghe e lode, E quel che ci diletta, gusta, e piace E’ fier veleno terminato (5), e frode: Corra chi vuol nei suoi piaceri audace, Che Dio, che il tutto fà, provvede ed ode, Mostrerà alfine al misero che resta Ne le scene infernali e scherzo, e festa.
Corra egli a modo suo, vedrassi un giorno, Chi avvezzo fu fra gemme, argento ed oro, Fra drappi ricamati, e paggi attorno, Stimato come un idolo, o tesoro, Nud'ombra, poca polve, e i vermi intorno Staran per sua grandezza, e per decoro: Fu un nemo, un fume, un vento, un lampo, un tuono Che compare, e dispare in triste suono.
I titoli, gli scettri e le corone, E son disegni degli affetti umani, V'arrivan pochi, così Dio dispone; Non à pace chi regge; e d'altrui mani Teme nèttare, o ambrosia al paragone Di tosco mortalissimo ed amaro, Sì che diviene ancora nei bere avaro.
La vera contentezza è sola in Dio, Egli è il centro de l’alme caste e pure, Egli appaga il voler, spinge il desio, E le rassegna alle celesti cure; II Profeta reale al parer mio Vinse regnando ebbe maggior venture (6), Disse a Dio poi famelico e infelice: La gloria tua sol mi farà felice.
(3) Non proprio, (4) Meno dopo immersi. (6) oscuro |
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II.
LODI DEL CONTE COTTONE (1)
Felice o Naso, ch'ai scudo e riparo Da braccio sì potente, e sì sublime(2) Che abbatte, atterra ogni tiranno avaro Nemico tuo dalle superbe cime: In tua difesa appresso il nostro caro Signor, tieni avvocato che deprime L'altrui fierezza, e per esempio antico, Chi regna in te, regna s'è giusto e amico(3).
In te quasi in miracol di Natura Chiunque fissa gli occhi ordine vede; E posto sei ne la più grande altura, Ch'ogni altra come tributaria cede: Cinto a vaghezza sei di forti mura, Né assalto temi, ch'ai sicura sede; Mentre accompagni co'l coraggio invitto La Fede, e i Turchi e i Mori ài tu sconfitto (4)! Il dirò pur, se sei tu del contorno Gioia pregiata, e come lor corona (5); II cielo amico, ai luminoso il giorno Se posto godi in temperata zona. Sparge la copia ad ambe mani il corno, E Flora, e Bacco, e Pallade, e Pomona Ti rendon di vaghezze ampie, e native I fiori, e i frutti ognor l'uve e l'ulive.
L'industria in te fiorisce, in te s'ammira Come in teatro, o spaziosa scena; A te glorie, a grandezze ognuno aspira, L'ozio è bandito degli vizi in pena; L'esempio degli antichi gli altri tira (6) Con l'una maglia l'altra fa catena; In te lo scettro a ogni arte, in te l'ingegno A' meta, e arriva la scienza ai segno. . Regge con giusto, e grazioso impero Questa sì amena patria, e i cittadini, Un Principe sovrano, e sì sincero (7), Che premia i giusti, e danna gli assassini; Sbandisce il torto, e fa apparire il vero, E’ caro al Rege, e doma anco i confini; E quel che importa à già prodotto prole, Che segue lui, come all'Aurora il Sole.
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Proviene dal Cotton (8) grato, ed altero, Ch'avanza di gran lunga Abeti e Pini, Ed è sì grato al mondo a dirne il vero, Ch'odora più che rose e gelsomini; Per eccellenza poi, per degno impero Fiocca sì grati fiori, e sì divini, Che ognun gl’intreccia per corona al crine Per degna lode ed onorato fine. Congiunta è a lui quella famosa insegna, Che per un corso de l'argentea luna, Sul regio trono, già sedette, e regna La gloriosa Prole, ch'ogni altra imbruna; A cui protegge l’Aquila, e governa, E come proprio parto in se il raguna; Con lei gareggiò Atlante, e il grato pondo
Più non
sostien de l'ordinato Mondo. (1) Cant. 8 Stanz. 47 a 53. (2) Quello del Navacita. (3) Famosa sentenza, che dovette esser letta trepidando dai signori feudali. (4) Bei versi; pieni di patrio orgoglio. Vedi L. I § 23. (5) Come le gioie: troppo lomtano. (6) Brutto. (7) La sincerità non è il medesimo che giustizia. (8) Girolamo Cottone. V. Lib. II § 29 Questa ottava risente del seicento.
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(secolo
XIX)
IN MORTE DI ANTONIETTA LIPARI
Come s'ape si aggira intorno al fiore Onde trarre da quello l'alimento, Cosi Antonietta fea col genitore Di sua vita nell'ultimo momento:
Padre, ah! padre, dicea, quel tuo dolore, De la mia buona madre il gran tormento, Che mostrato mi avete in tutte l'ore, Oh! come dolci in questo petto io sento!
Ne l'ultimo, amoroso, estremo addio, Beneditemi, o cari, è questo il dono Che vi chiede morendo il labbro mio:
Redentore pietoso, il tuo perdono Imploro ai falli miei, il resto oblio,
E lieta fra tue braccia io m'abbandono.
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IV
Vieni al mio labbro, accostati O lino fortunato, Mentre di calde lagrime Ancor sei tu bagnato:
Vieni, ch'io voglio mescere Al pianto del mio bene I miei sospir, che nascono Dalle incessanti pene.
Da queste labbra sciogliere Non lascerotti mai, Compagno indivisibile Del mio dolor sarai.
Oh! se tornar ti è lecito Da quella Dea, che adoro, Iniplorami per grazia
A tanto duol ristoro: Dille, che la tirannide Mai si conviene a quella, Che par del cielo un angelo Ed è del Sol più bella.
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Dille, che fra l'angustia Ch'io sento in tutte l'ore, Prova in mirarla un’estasi... Si rasserena il core.
Dille... ma no, se torbido Ver te lo sguardo gira, Non la sdegnar, discostati, Non provocarla ad ira:
Dille che sol desidero Che ardentemente bramo Che sia felice, e sappia
Che, ancor che ingrata, io l'amo Che se mi vuol colpevole Di qualche lieve errore, Pietà piuttosto io merito, Pietate e non rigore.
Se ciò gli è ver, sia giudice Amor, che regge e guida: Amor m'intenda, ei giudichi, |
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(SECOLO XIX) V LA MONACAZIONE Carme DELL’ARCIPRETE FILIPPO CANGEMI DA NASO |
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PHILIPPI ARCHIPRESBITERI
CANGEMI A NASO MONACATIONIS |
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A lei che fede già in connubio à unita A lo sposo divin; a lei che il Padre Onnipotente, che lei del Ciel la lieta Reggia, fra i canti dei celesti cori E gli applausi frequenti, alle supreme Legan ragioni, e la salutan sposa Concordemente: a lei, poeta umile, Io lodi intesso del Ciel fian eco Se Cristo i carmi ispirerà. La cruna All’amata sua sposa egli compose, E di doni celesti i teneri anni Empì di lei. - E già nel lare occulta, A la florita ed odorosa etade La Vergin s’apre, che la vigil cura Dei genitori custodisce, come Il pollon de la rosa in mezzo ai campi I propri fiori da crude spine Didende, e adombra di chiomanti foglieElla frattanto di pietà fulgente, Di frondi incoscia, nel materno seno Sugge i costumi; del pudor gli esempi Impara, e il core e le caduche pompe Mai non aprir. E mentre al gaudio anela De la celeste region, su l’etra Vola con l’ali del pensier; ma, oh! Quale L’agita guerra sconosciuta d’ira, Già a tesser frodi si argomenta e inganni; E con frodi ed inganni allor sen viene La giovinetta ad aggredir:- “Che tenti…. Oh! Che tenti inesperta? A che l’amara Ampolla di virtù bevi, se tanto Fonte di voluttà sgorga ed inebbria Nostri sensi soave? — Ah! de la vita, Con le delizie, ad allenir ti affretta Gl'infelici dolori: ella è fugace! Di fiorite corone il capo cingi, Che ti s'affanno; i tremuli capelli Col calamistro increspa; al dito gemme, E di perle un monile il collo adorni, E di gemino pensile sfavilli L'orecchia, e fà che ne la man gentile
Serica palla intumidisca... oh! bella Eppur, se ancora tu nol sai, le labbra Non somiglian la rosa, e molle al pari De le pruine non è il collo, e il crine A la viola, ed alla fiamma il guardo Simil non sono, e ingiusta e omai si lieve Disarmonia: scuro è il tuo ciglio, ah! il tuo Candor di sangue non abbonda... Vieni! I teatri e le vie, te le adunanze Vedan nei balli roteante, e intorno L'affascinata gioventù ti applauda. Godi del tempo, e fraudata voglia Mai non ti cruci, nè il pensier molesto Del caduco avvenir” Si disse; e il passo Da lei traendo, d'empietà spumante, Tazza le porge lusinghiera... — Ah! il voto Ineffabil, già scosso è trepidando De la Vergine in cor; già il dubbio sorge... Che fia? berra? o fia che schivi il truce Attingimento? Ciò volgendo, cade Da le volte del Ciel placido un foco... E tosto suona l'anelante voce D'uom che s'appressa: “ 0 sventurata... fuggi.. Deh! ti guarda... che scegli?” Era la voce Di Cristo; e Cristo le apparì: ma, oh! quale Egli era ohimè! quanto da quel diverso! Laceri i fianchi, e piedi, e mani avea...
Tutto piaga era il corpo; in quella guisa Donato, giacque. Uomo all'imago, e Dio Ei si pareva ne la gloria: il Sole
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Già a le sue membra lo splendor degli astri Dava, e alla bocca sfavillanti rai: Folgoravan le crude ampie ferite, Ed il lacero sen, più de la neve Bianco, che l'invernal luce colora, Splendea di raggi. — “ Or ch'è mai questo? ” ei disse E favellando, d'infinito amore Ardon suoi detti: — “mulinando in mente Ora, o Vergin, che vai? lo del maligno L'opra conosco, a frodi e inganni ordita; Ma l'empio invan di Flegetonte a l'ombra Freme, e di opporsi penserà ai consigli Che del Cielo segno 1'immenso Nume: Pria del mar, de la terra, e pria de gli astri Seminati per l'etra, a mio diletto Nei pensier ti dipinsi e vagheggiai. E sin d'allora eri mio foco, e mia Soavissima cura, e in un consorte... Del mio talamo sposa. E poi che l'aura Succhiar ti feci de la vita, avanzi
In celeste beltà, ch'io ti mertai Col mio lacero sen: — guardami, o sposa, -- Ed or miei sensi nei tuo petto figgi: Se del Ciel, del mio amor, di vita eterna Desio ti prende, se mia gloria stimi, Se a me simile esser tu vuoi, le mie Imita pene, e le fatiche a sdegno Non ti vengan giammai: — io povertate Non amai forse? le terrene cose A vil tenendo, di ricetto o covo Ch'àn pur le belve, non mi vider privo? Pellegrino non fui, scacciato ovunque, E irrisioni, ed amarezze, e inganni Io non soffri, e sul funesto tronco La morte? E tanto le stellate sedi De l'Olimpo mi schiuse, e morte io vinsi; E riportando il celebrato trionfo, Col lume onde mi scerni, il merto io m'ebbi De la destra del Padre; ah! ma con quante, Con che blande maniere! —Ed or la molle Affascinante voluttà, non voglia Solleticar la giovinezza, ai sogni Facile tanto; e le fallaci e vane Ombre del mondi, non ti traggan seco Per lusinghieri allettamenti… oh! Tosto Seguimi o sposa, ov’io menar t’intendo, Ove nessun mi ti torrà giammai! E la man già le stringe, e lei, volente, Tragge colà dove sicure sedi Di sui spose si levano: Una stanza A muraglie di ferro è questa: intorno A sua difesa giovinetti alati Vagolan mille... una coorte sono Di Ciel mandata a vigilar. Di tratto Sovra il cardine suo s'apre la porta, E al vestibolo innanzi, innanzi al primo Lembo del tetto, nudo il pie, le guance Umide, il seno percuotendo, giace Nemesi, e sparge sul reciso crine Genere. II pianto rasciugando, presso La Pazienza sorridente mira; E le alate Preghiere, ed i Sospiri Su le labbia dischiuse, e la Fatica, Ed il Digiuno da ie dense rughe: Ella, il suo Duce seguitando, viene
Ne l'interno silenzio, ove secura Verginità con verecondo piglio In solio siede maestosa, e addita II suo capo immortal d'una corona Cinto, e veder ne le sue man fa i gigli A le palme commiste. E qui fra niuno Vago ornamento, di brandelli sparsa Povertate risplende; e presso siegue Obbedienza, e in moderata e trina Vicenda regnan le tre Dee, da cui Un sublime rispetto a la Novizia Sacra s'impone: |
Le profane vesti, E gl'ingegnosi abbigliamenti allora Ella tosto si spoglia; e de la negra Tunica, imposta sul tessuto stame, Ricade il lembo sino ai piè. Lo stesso Cristo, precinge d'una fune i fianchi E ne afforza il pudor; sul vergin crine Simile a fiamma una viola pone: Indi l'ampolla, ch'ei sorbì, palesa, E lei, già lenta ai primi sorsi, invita: “ Oh! veramente tu mia sposa sei;
E lei, già lenta ai primi sorsi, invita: “ Oh! veramente tu mia sposa sei; Cosi nel fral, così ne l'alma or m’ài, -” Dice; - “congiunta a me qui in terra, il dono Avrai degli astri, e i cittadin del Cielo Questo gaudio già attendono. Ma intanto Quai di fede e di amor pegni mi appresti? -” “tutta me stessa, quando tua già sono Dolcissimo Gesù, -” la Vergin dice; “ Il primiero amor mio tu avesti, e avrai In sin ch'io viva. E far voglio tal voto Per te, che scriver nè diamanti puoi: — Immensamente odierò le pompe, E di Stige il Sovran. — Ah! te vogl'io De la vita inventor, lume di vita Seguir! — tu sei tutto il mio ben, la dolce Mia speme, e sola mia delizia: oh— tanto Perchè mi tardi le promesse gioie? Quando fia che in eterno io possa il volto Senza velo mirar palesemente... Oh! si, quel volto, che i celesti india?” E Cristo allor: “- Quando sorbita intera L'amarezza del calice tu avrai, De l'opulenza del celeste regno Ti appagherò: berrà il tuo labbro allora La dove sgorga da inesausto fiume La perenne delizia; e de la Vita Gustando il fonte ne l'origin prima, Vedrai tu un lume in trino lume, e l'ombre Tenebrose di morte ai piedi tuoi. Ne' miei talami allor, ne le supeme Sedi tu ammessa, regnerai felice Meco godendo la celeste Sionne”. Cosi parlò; e su l'eteree volte Indi levato, d'una luce segna II più breve sentier del sommo Olimpo. |
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PER ANTONIETTA LIPARI(*) ISCRIZIONE
Questa infelice, disiando i guai De la vita finir, duol non intese Volgere a luce così breve i rai: Ma alla casa divulsa, onde gli affetti Cari lasciar…, questo, morendo, apprese Esser più duro della morte assai * V. Sonetto del Milio |
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(SECOLO
XIX)
VI.
Argomento L'Uberto Squalm, ch'è il soggetto della presente tragedia, come ognun vede, non è quegli che cospirò nel regno di Martino Re di Sicilia. Si suppose esser un di lui antenato dell'istesso nome, che visse ai tempi di Federico Imperatore e Re, e che prese principal parte nella tremenda rivolta suscitatagli contro dal Pontefice Gre- gorio IX in Sicilia per opera di Martino Ballono in Messina, di Ugo in Centuripe, e di altri in Siracusa, Agrigento, ed altre città dell'i- sola (V.L., III, § 3).
La scena è nel castello di Enna.
DALL'ATTO
I SCENA III |
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SIGIS.
Figlio, a
me qual riedi?
BELT.
Que'campi, o padre, Gioia de' trionfi nostri ahi! fu turbata Dai fulmini di Roma. Entrò nel tempio il gran sepolcro ad adorar lo Svevo; Ma trovammo le immagini velate, Dispogliati gli altari, e tutto quanto Parato a bruno e custodito quasi Dall'Angelo dei reprobi. Ei sul capo Con propria mano si poneva il serto, Ne un cantico si alzava, e sol si udiva Lo strepitoso grido dei guerrieri Echeggiar per le volte. — In premio il rege Di Emerin mi fe' Conte e di Tortosa. Tal riedo, o genitor. |
sigis.
Ora mi abbraccia, Bello è il morir tra i campi! ... Eppur quell'uno Ch'eguagliarti in virtu potea, quell'uno Di cui questa magion orba ritrovi, Per vile mano inonorato giacque A tradimento ucciso... a tradimento! belt. Padre, ti accheta, e il duol dia luogo al senno. Lui rivocar dall'orco mai non puoi Con lamenti o con voti, e il tuo corruccio Sol te stesso consuma. A che ti è caro Tanto dolor che pur non toglie i mali? II tuo gran core ov'e? La prima fiata, Che l'infortunio alla tua porta picchia, Tu l'ai perduto, oime! sigis. Cadde Eberardo Morto d'orrida morte: udir non voglio Detto consolator, e sin ch'io viva L'ire mie non acqueto, ov'ei sotterra Giaccia inulto cosìi, nè il sangue suo Paghino i rei col proprio sangue. Giusta Cosa non è dimenticar gli estinti. belt. Quanto a me pure del fratello estinto Dolga lo sento, e il mostrerei se noto Men fosse l'uccisor. Ma l'ire nostre Su chi gravar?... Riserbiamie al tempo, Che mai non manca, ed a punir la colpa Pon voce all'erbe e a'sassi. sigis. Alma inesperta, Se non cerchiamo il traditor, chi mai Dal tradimento può camparci? beit. a Cielo. sigis. Troppo ti affidi. bei.t. Almen non pianger tanto Non giunger danno a danno. |
sigis. ah! tu non vedi, Com'io, sua salma esanime e scarna; Col rabbuffato crin, col sen squarciato D'una profonda piaga, e colle guance Luride e spente non la vedi, quale Era quel dì, che la funerea bara In questa sala si posava!... Figlio, Deh! in abbandon mi lascia, io ten scongiuro, Al dolor mio... mi lascia. belt. E forse incontro A qualche gioia ne andero? Mi aspetta Altro dolore a confortare... Imelda. sigis. a' profferito un nome abbominato, Che nessun osa... figlio, se ami il padre, Non m.'irritar. bei.t. a tal grado efferato Giunse il tuo cuor da ch'io mancai? Fia vero Ciò che pur dianzi udia?... Tu con tue mani Scavi la tomba alla dolente? — Assai Negli trascorsi tempi procacciasti A te di duol col furibondo spirto; Ora il rimorso non vi aggiunger... pensa Che un'innocente uccidi. Ti sovvenga Quando al tuo crine, alla tua spada invitta Ella cantava inni di gloria; allora Di nobile furor pianger ti vidi... E sul tuo cuore or non avrà più forza Quella possente sua voce amorosa, Ora che ai suoi sospiri urlan financo Gli stupidi antri? Al suo tormento acerbo Spetransi in pianto i cor più duri, e solo Tu chiudi in petto un'anima d'acciaio? sigis. L’età canuta ogni tenero affetto In me già spense, e l'agghiacciato core Altri palpiti più non prova ormai Che que' della vendetta. Ad uno ad uno L'antica mente i sanguinosi torti D'Agraga avuti mi richiama. belt. Imelda Sacrifichi in tal guisa. |
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sigis. Ella e figliuola Del piu tremendo mio nemico... Figlio, Sentito ài sol che le famiglie nostre, Sitibonde di onor, vaghe di pugne, Più volte si affrontar; ma non conosci Intera forse quest’istoria acerba Onde le nostre liti ebbero capo; Non conosci qual sangue si è versato, E quali mani restano a placarsi Da tuo padre tuttor... e meraviglia Quindi non è, se alla pietà tu adesso Nel gentile tuo cor osi dar luogo. bei.t. Ma che siffatte liti ebbero un fine lo ben rammento, e che il monarca istesso Vi astrinse ad una pace suggellata Coll'imeneo de' vostri figli. sigis. E’ vero, L'error commisi. — B chi di error fu scevro Unquemai tra' mortali? — Or piena ammenda Anelo fame... belt. E n’è vittima? sigis. Imelda. bei.t. 0 infamia, ch'egual unqua non si ebbe! Se a vendicar un consanguineo lutto Un secol non bastò d'ingiurie e stragi, Se nuovi torti a te chieggono ammenda, Appaga pure il tuo furor, ma scendi Sul campo dell'onor, Teobaldo sfida, Da vecchio cavalier combatti e vinci. sigis. Mai non andiedi di battaglia in traccia, Nè la sfuggì giammai quando a me venne. Teobaldo a me la figlia sua ripeta, Qui venga armato, e al mio castello accanto Batta lo scudo; non è suon di pace Il suo rimbombo, di mie stanze in fondo Ascolterollo, e scenderò nel campo. belt. Dunque d'Imelda il rio destino? |
sigis. E’certo. belt. Ebben, per sempre al tuo figliuol rinuncia. sigis. Ingrato!... ed osi?... belt. Appressati, e conosci L'emblema ch'io nascosi. sigis. oh! Ciel! che veggo!.. II Bafometo de' templari?... Figlio, Ahi! che facesti?... Ed un si crudo voto Avesti cor di pronunciar? belt. Perduta lo aveva Imelda, quella Imelda (ahi! lasso!) A me promessa; e poscia tolta!... Al mondo Che mi restava più? Dove potea Io più riporre l'amor mio sublime? Sol quel Dio mi rimanea rifugio In questa valle di dolor, che rosso Fé del suo sangue il Golgota per noi. A lui mi volsi i gioni miei sacrando A la difesa dell'avel che il chiuse. — Ora pero... Deh! tu perdona, o Iddio... Tu tutto puoi, tutto da te mi aspetto... Non. è che ti tradisco, ma la speme Che in me rinascer fai da te promana, E s'è cosi deh! rammollisci il core Di un genitor ch'empio non è. — Tu taci? Ah! se ti ostini nel pensier tuo crudo, Ecco men riedo. Resterai qui solo, Orbo d'ogni sostegno alla cadente Tua età, da tutti abbominato, in odio Al mondo e al Ciel, col parricidio enorme In fronte scritto, senz'aver la forza Di attentare a te stesso... Ora risolvi. sigis. Cosi mi tenti, o figlio astuto? bei,t. Il Tempio... sigis. O lmelda?... Ebben sii pago: abbila. Assai Io l'abborrisco... ma t'amo, ed hai vinto. Ora però lasciami solo, o figlio; Troppo è la piena de' contrari affetti Che l'anima m'inonda, e di riposo Ho già bisogno in solitaria stanza.
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(SECOI.O XIX)
(NASO ILLUSTRATA) da pag. 162 a pag. 174
VII.
Annuntiavi justitiam tuam in
Sì, gran Dio, parlerò: quand'anche l'impulso autentico dei vostri cenni trovasse tanto indocile la mia lingua e tanto ostinato il mio silenzio, quanto il silenzio e la lingua di Giona. Eh! non son'io quel forestiero Profeta, che voi spediste a Ninive peccatrice? Ohimè, son io medesimo un Ninivita; e le miserie estreme della sfortunata mia patria bastan pur troppo a struggermi il cuore in sospiri, e a cangiar la mia voce in un lugubre tuono di gemiti e di minacce. Che scena orrenda, che spettacolo atroce per me! — La Francia, o mio Dio, sì virtuosa un tempo, nauseando poco a poco le antiche usanze, aspira oggidì al vanto di originale, non già per superare la pietà dei padri suoi, che deride e calpesta, non già col meritarsi il primato nelle scienze e nelle lettere, ma con seminare l'universo di un'empia filosofia, di cui trova un fondo inesausto nella sua stessa depravazione. Il misero abitatore delle campagne, non incredulo e non cristiano, ignora egualmente gli scritti incendiari dell’ateismo e le verità consolanti del vostro Vangelo. L'artista imbecille ripete i cantici delta bestemmia intuonati dal coro profano dei suoi Dottori; il cittadino prostituito si gloria di non conoscervi, e perseguita la religione sotto il titolo di fanatismo; il grande voluttuoso, apre nei suoi palazzi un mercato di corruttela, dove dall'assoldate passioni si vende e si compra sfacciatamente il delitto. Tra i vostri stessi ministri, tra i candelabri del santuario, vi è pur taluno che mossa guerra alla grazia, avvilita l'altezza del Sacerdozio, impugnata la maestà dell'impero... Ah! sì, gran Dio, parlerò: l'intiero mondo, se pur vi piace, sentirà il linguaggio obliato della vostra giustizia; e lo vietin pure o l'adulazione o il terrore o la morte, ah! la morte istessa, gran Dio, non chiuderà le mie labbra: Annuntiavi justitiam tuam in Ecclesia magna, ecce labia mea non prohibebo. A questa pittura sì viva di scandali e di peccati; a questo impegno sì generoso di maneggiar da Profeta la spada invincibile della parola, e di arrestare nel suo trionfo l'impura donna di Babilonia, voi già ravvsate il carattere incomparabile, che dalla cuna al sepolcro accompagnò Vincenzo de'Paoli. E non vi scuote, o signori, e non vi riempie di un santo entusiasmo questo nome? —lo vi so dire che l'angelo del testamento lo scrisse con gioia ne' suoi registri; vi so dire che lo ascolta e ne freme il perfido giansenista, la scolta e si esala in invettive la lurida bocca del filosofo. Il solo rammentarlo commuove in si strana guisa il mio spirito, che senza ben concepire ove possa guidarmi il pronto immaginar dei pensieri, — o possente Evangelista, esclamo, o raro fior di terra, che germogliò tanti triboli e tante spine, a quali giorni caliginosi vi serbaron mai gli arcani sistemi di Provvdenza! E come vi salverete dal periglioso contagio, tra gli aliti avvelenati del capriccio e dell'errore? Per qual via fuggirete dalla vendetta e dall'odio, se le chiome Canute, se la virtù solitaria, se la vita irreprensibile formano appunto la gran condanna del giusto? — Ah! che farete innocente Daniello in un baratro di leoni! — che mai farete virtuoso Mosè nella notte orrenda, che tutto involve l'Egitto! — Signori, che farà Vincenzo dei Paoli?... Parlerà!…. Parlarono gli Apostoli e precipitò dal suo trono la vinta idolatria; parlerà Vincenzo, e l'indegna filosofia, che già ergevasi un'impero tra le nazioni, fulminata nei suoi disegni sacrileghi, e confusa nelle sue bugiarde promesse, sarà l'illustre trofeo della voce animosa, e della parola evangelica di Vincenzo: A-nuntiavi justitiam tuam in Ecclesia magna, ecce labia men non prohibebo! Chi fece maggior danno alla vita sociale, chi costò più lagrime all'afilitta Chiesa di Dio, lo stolto idolatra dei tempi antichi, o il malvagio filosofo dei nostri giorni? — Questo infelice problema, che un diluvio di libri abominevoli, e una lunga serie di perfidie e di obbrobri anno già disciolto per noi, non era ignoto al secolo di Vincenzo, ma poiché le file avviluppate dell'infernale orditura s'intessevano allora appunto dai congiurati, e sol compariva al pubblico in brevi mostre la tela iniqua, che si lavorava in segreto, il giudizio poco agguerrito del volgo, o non sentì l'importanza della quistione, o mancò dei dati opportuni per definirla. Vincenzo, però, l'avea decisa: simile a quel celebre Saggio che, misurato un sol dito, determinò la statura incognita di un Ercole gigantesco, avea supplito alla scarsezza dei fatti immediati con le infallibili combinazioni di un'esperienza e di un raziocinio, che sin dagli anni più verdi ne formarono il Profeta e l'Oracolo della Francia. Vide ben' egli sin da fanciullo lo smisurato abisso che disgiungeva il filosofo dall'idolatra: vide che laddove il dominante idolatra aveva prescritto un nuovo culto in paragone dell'antico, lo scuro filosofo si usurpava il diritto di abolire indistintamente ogni culto: che l'idolatra era stato sì prodigo da decretare l'adorazione e l'incenso a molti Numi; ed era il filosofo cotanto avaro da togliere la libertà di riconoscerne un solo: che nello spirito dell'idolatra la religione fu sempre il cemento più fermo dell'ordine, della felicità, del costume, e nel pensiero del filosofo l'impostura, le turbolenze, la codardia, conoscean per madre la religione. Che l'idolatra tiranno aveva moltiplicate le virtù strepitose dei perseguitati cristiani; e il filosofo lusinghiero trasformava i cristiani o in una ciurma di bruti, o in un popolo di ribelli; che l'idolatra insomma, tra le tenebre di un’empietà forsennata, avea veduti dei Socrati, dei Catoni, delle Artemisie, delle Lucrezie; e il filosofo, di mezzo alla supposta irradiazione, contava soltanto per suoi proseliti i Verri, i Tiberii, le Cleopatre, le Messaline. All'armi! — adunque, gridava inorridito lo zelo apostolico di Vincenzo, — corriamo all'armi! — combattiamo un formidabil nemico, opponghiamo ardire ad ardire, e parole a parole: si vedrà se quelle dell'uomo, con tutta la sedicente vernice, che le colora, potranno far fronte alla semplicità maestosa e alla terribile verità, che avvalora quelle di Dio, e subito qual pioggia improvvisa in sitibondo terreno, irriga Chjsy, passa a Falleville, inonda... (manca) ... non vi sono campagne così rimote, non triremi così scordate, non carceri così neglette, non boschi, non caverne, sì spaventevoli, ove non porti la piena benefica di sue parole. Scende la celeste rugiada non meno su i gentili arboscelli che sulle piante selvagge, e rianima con tal fortuna la moribonda virtù dei germi languenti, e gli nutre, e gl'impingua con sì robusto alimento, che invano si sforzerà d'inaridirli o il soffio adirato, o l'alito impuro di quelle infami dottrine onde s'ingombra ormai per ogni parte la nuvolosa atmosfera. Poiché l'odio alla religione, che mai non fu mite, come non ne fu mai mite l'amore, quest'odio mai celato sin'ora sotto una cenere insidiosa, più non soffriva i suoi ceppi: circospetto pero nella sua stessa ferocia, e spaventato dalle recenti vittorie, dal grido intrepido di Vincenzo, ricusò di comparire su la scena se non avesse al fianco un autorevole compagno; e il compagno, per grande sventura, fu bentosto al suo fianco. Ah! fenomeni della Francia! oh, strano sconvolgimento di cose! — II teologo, il natural nemico della depravata ragione, si legò strettamente al filosofo macchinatore, ne protesse i sofismi, ne rese credibili i paradossi, ed allora fu che sulla cattedra dei Prosperi e degli Ilarii si vide assiso un Sancirano, un Giansenio. — E’ certo, diceva il teologo, che l'uomo presente non è capace di libertà: dunque conchiudeva lietamente il filosofo, lasciatelo alle sue voglie; o doni o rapisca, o sbrani il suo simile o lo soccorra, non vi è vizio, non vi è virtù, non vi è merito, non vi è colpa. — E certo, soggiungeva il teologo, che se manchi all'uomo una grazia vittoriosa, non potrà con qualsiasi sforzo obbedire alla legge: perché, dunque, inferiva il filosofo, perché mai farete un debito di trasgredirla? Perché mi punirete di azioni, per voi malvage, per me necessarie? — E certo ... ma basta fin qui; se penetrando nel cuore di costoro, come si scende col pensiero nell'inferno, potessi sospendere ancora per poco il raccapriccio e l'orrore, io farei vedervi la gioia atroce dei baldanzosi colleghi, il giuramento iniquo di atterrare ogni ostacolo, i rapidi effetti delle opere tenebrose, il discredito dei Sacramenti, l'espoliazione delle Chiese, gl'insulti al Vicario di Cristo, le minacce allo scettro ed al trono; in una parola, il panegirico di Calvino e la satira di un Concilio Ecumenico. In tanto pericolo della fede, in tanto esterminio della morale, Vincenzo, ah! chi sa, perdute forse le speranze, sbigottito per entro alla vasta ruina... eh! non si oltraggi un eroe col fingerselo sbigottito. Se si strugge in lagrime a pie' del suo Dio; se raddoppia le preghiere ai cilizii, son queste le lacrime di Giuditta, che meditava intanto il gran colpo, e già troncava in cuor suo la cervice superba dell'iniquo Oloferne. Con qual impeto non si lanciò su l'errore! di qual costanza non si armò per combatterlo! qual uso non fece della lingua e della penna per soffocarlo nelle sue fasce! — Vedetelo... (manca) ... indarno si tentò di abbatterlo, indarno di lusingarlo: colonna di ferro, fortezza inespugnabile, guardò con disprezzo gli scellerati; e no, — disse loro — non prevarrete: voi mi assalirete in segreto, ed io s’apro caratterizzarvi in palese. E frattanto volava alla Corte per denunziare la congiura; inviava Dottori alla metropoli del cristianesimo per sollecitare i suoi fulmini, ed investiva a faccia a faccia il medesimo Sancirano, per convincerlo di sue follie. — Che tutto piegasse all'invitto ragionare di Vincenzo, fuorché il sordo orecchio dell'aspide irrigidito, chi potrebbe persuadercelo, o più di quei delusi magnati che richiamò su le orme della verità combattuta, o più di quegli eretici cavillosi che strappò vincitore al tenace artiglio del Calvinismo? Ma se ciò non vi basta, o signori, chiedetene alla gran Roma, interrogatene l'infallibile Vaticano: là fu schiacciata col peso immenso delle censure la doppia testa della furia sterminatrice, e là fu resa una eterna giustizia all'uomo impareggiabile, e ai tratti infuocati della sua divina eloquenza. Ma questa eloquenza, sì celebrata, sarà dunque in Vincenzo un istrumento perpetuo di opposizione? E sempre intesa a distruggere, a sradicare, non amerà. del pari l'edificazione e la cultura? Eppure, senza un tal pregio, non è perfetto, non è felice l'apostolato; le parole hanno bisogno di prova; e potrebbe cercarsi a ragione se l'idolatria pertinace abbia ceduto al suono della voce, più che all'opera della mano, o se la faccia dell'universo siasi rinnovata piuttosto con la santità delle massime, che con la rarità dei prodigi. Perché non farà Vincenzo altrettanto? — Abbia anch'egli l'onnipotenza al suo cenno, stenda la destra taumaturga, e richiami in un subito i muti alla favella, i paralitici al sentimento, i morti alla vita, e le sue parole avranno allora un'incontrastabile sanzione. Sconsigliati che siamo! prodigi con dei filosofi? opere sovrumane di fede con chi non ebbe mai fede? Eh! non profonde il Cielo sì vanamente i suoi doni: e dopo che Gesù Cristo ha deciso che non si arrende ai miracoli chi non si arrende ai Profeti, cessate pur di stupirvi se per confondere il filosofo miscredente non fa pompa Vincenzo di quelle celebri meraviglie che persuasero tante volte il sincero idolatra. Ha pero sempre seco la possanza incalcolabile della parola: questa è il suo tutto, questa dà prova di se medesima, mette in polvere la filosofia sbigottita; ed è dunque il più brillante, il più mirabile del suoi portenti. Ma nella gran prospettiva, che si discuopre al mio sguardo, ove arrestarlo, o signori, e donde incominciare il racconto? Volgetevi da questa parte, mirate l'infelice Lorena... ma parla Vincenzo, e venticinque città sono in salvo: piove nelle piazze e nelle strade il pane ai famelici, il vestimento agl'ignudi, la medicina agl'infermi. Gli squallidi fanciulli, le vergini pericolanti, i patrizi, i plebei benedicono la ricca parola di uno straniero, che spedisce l'efficace misericordia, ov'era smarrita ogn'idea di compassione e di giustizia. Rivolgiamoci dall'altro lato... e quella Inghilterra; e questo il barbaro Cromwell. L'isola intera è sconvolta, il novello Nerone ride, i cattolici son perseguitati, si rifugiano in Francia; parla Vincenzo, e trovano in Francia la loro patria. Ma le angustie della mia tela mi forzano infine ad accumulare i prodigi, che troppo sarebbe lungo, o signori, il dipingere ad uno ad uno. Parla Vincenzo, e volano dalla Senna fin su le cime del Libano i sussidi più vigorosi al Maronita in periglio; parla... ed escono Ospedali... Paria... (manca). Allo strepito di prodigi sì decisivi, che pensò, che fe'mai la superba filosofia? Era in susurro il suo regno, si scoraggiavano i suoi campioni; il mondo, già da gran tempo solluccherato dal fascino di pompose promesse, parea sul punto di ravvisar l'illusione; e nel filosofico pandemonio si temeva del pari e una disfida, e un confronto. Tacque essa dunque, istupidì, si nascose. Ah! perché non pubblicarne allora l'impotenza, la codardia? Perché con opprimere suoi detestabili sicofanti, non si provocò l'anatema della terra, l'epilogo della immoralità, del sacrilegio, dell'assassinio? — Ma, se non parve in quei giorni o necessario o vantaggioso di sfidarla, già vinta, per annichilirla, io non lascerò di costringerla oggi a confrontarsi col vincitore. Contemplati, scellerata, di faccia a Vincenzo: tu stipendiasti le grazie delta parola, e il valore dei talenti, per detronizzare la virtù; i talenti però e la parola servirono a Vincenzo per assicurarne la monarchia: tu collocasti nel fango e nel caos i fondamenti della tua chimerica società; ma Vincenzo non vide base di società, se non vide per prima la religione: tu vantasti e scoperte e lumi, e felicità, nè mai facesti un sol felice, un sol dotto; ma Vincenzo nell’umiltà della Croce seppe fare a mille a mille e i dotti e i felici. Apri una carta geografica senza trovarvi un paese ove tu non abbia commesso o macchinato un delitto; ma non vi è forse paese su cui Vincenzo non abbia versato dei benefici: mira le tracce infami degli apostati, dei latroni e dei sicari, che corsero nel tuo nome a desolare l'Universo; ma quanto son belle le orme di quei grandi uomini, che con Vincenzo evangelizzarono la pace! — Non più vivi, infelice, tra gli orli crudeli di una coscienza sbranata, e muori con lo spavento nel cuore e con la bestemmia sul labbro. Vincenzo che si nutrì di virtù, che respirò mansuetudine, e calma, che visse di fede, di benefici e di zelo, Vincenzo muore: Deh! per pietà, santissimo Patriarca, non ci lasciate: or più che mai la vostra patria ha bisogno della vostra parola. — Ohime! Vincenzo morì... L'Eterno, la cui giustizia aveva egli annunziata, lo riceve nel suo grembo, i popoli ne narrarono attoniti le grandi imprese, la Chiesa ne promulgò gli esempi e le lodi; e la Francia cattolica, con quest'ultimo eroe, chiuse addolorata il catalogo dei suoi santi. |
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Appendice al libro III
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(SECOLO (XVII-XVII)
PIETRO DRAGO E DOLCETTA IX.
IN MORTE Dl S. CONONE ... Correva dalla salutevolissima nascita del Redentore l'anno 1236, ed il 97° da quella di Cono; il quale, aggravato dall’età, e dalla non mai interrotta penitenza, tutto era in aspettare ansioso il passaggio alla beata vita; e con veementissimi desideri priegavane Iddio che al Cielo ornai lo chiamasse; e meritò, pria d'andarvi, goderne un saggio dal suo singolarissimo Avvocato, il Principe de'beati spiriti S. Michele, come raccogliamo dalle antiche icone, e da alcuni manoscritti, là dove nel greco rapporto solo si dice misit (Deus) angelum suum qui visitans, ec.
Adunque sul mattino dei 28 di marzo, in cui occorse il Venerdì della
Santa Parasceve, consecrato alla inclita passion di Cristo, alla cui
memoria Cono avea vissuto devotissimo, si pose in orazione; nella
quale, per il gran desiderio di unirsi prestamente a Dio, fu elevato
in estasi cosi alta, che la veemenza dello spirito gli sollevo da
terra anco il corpo; ed in quel modo fu trasferito dagli angeli
nella patria celeste, dove godesse abbondante a cento doppi, la
mercede delle sue buone opere. In qual ora appunto le campane di
Naso, da mano terrena non tocche, col loro fragore accompagnarono al
Cielo quella benedetta anima, e diedero insieme alla Terra segnale
di tanta sua perdita. Essendo dunque tutti concorsi alla di lui stanza, sentivano un grande odore di Paradiso, essendo vero, come dice S. Paolino, che i Santi grandi lasciano impressa la fragranza della santità nei loro cadaveri, che aetemum spirant animae victricis odorem.
Miravano
dunque per le fessure della porta, e vedevano il Santo sospeso in
aria con le mani giunte, e le ginocchia piegate, e per quanto rumor
facessero, no'l potevano riscuotere; onde accortisi ch'era già
morto, non sapevan contenersi dalle lagrime piangendo chi il Padre
dei poveri, chi il rifugio degli afflitti e bisognosi, il Padre
comune, ogni cosa. Procuravano intanto entrar dentro, ma così
eccessiva era la luce, che isciva dal suo corpo, restate luminoso
come Moisè
ex consortio sermonis Domini,
che venivano risospinti indietro(1). --------- (1) VITA E GLORIE DI S. CONO, pag. 39 a 42. - Quanto a in-
genuità e schiettezza, i due caratteri indispensabili
della leggenda, |
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Appendice al libro III (NASO ILLUSTRATA) da pag. 162 a pag. 174 |
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(SECOLO
XVIII)
CARMELO
CONTROSCERI DELL'AMOR PROPRIO
... Se dunque tutte le nostre passioni si riducono all'amore; se tutti i nostri amori si risolvono nel1'amor proprio, noi possiamo ragionevolmente conchiudere, che l'amor proprio è il padre di tutte le passioni del cuore umano, e il tronco, da cui tutte si diramano. Esso è quella gran passione primitiva, che nasce, cresce e muore con noi, ed ora visibile e manifestato; ora occulto e mascherato, e sempre alla testa dei nostri affetti, e il primo mobile delle nostre azioni.
Imperioso nell'orgoglio, terribile nello sdegno, umile e dimesso nel
timore, attivo e industrioso nell'ambizione, l'amor proprio prende
infiniti aspetti e figure, a misura delle circostanze diverse in cui
si trova. Ma dove poi egli si rende veramente prodigioso e
incomprensibile, ciò si è appunto nell'amore. In questa passione,
dimentico affatto di sè stesso, egli sembra, come si è detto,
trascurare interamente i propri vantaggi per quelli degli altri e
sacrificare i suoi piaceri, i suoi comodi e la sua esistenza
medesima all'altrui felicità. E frattanto in mezzo a tutti questi
sacrifizi egli agisce sempre più pe'propri interessi, e non perde di
vista il suo piacere, il quale gli arriva tanto più vivo e delicato,
quanto meno ricercato in apparenza.
(1) Istituzioni di Giurisprudenza Naturale, Vol. I, Cap. V. Appendice al libro III
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Segue libro IV... |