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ALESSANDRO MANZONI: ritratto di un sommo ingegno

 Alessandro Manzoni fu un uomo, un carattere, un esempio.

Da parecchi anni non era più apparso in Italia uno scrittore nel quale fossero, in così larga misura e in così bella armonia, congiunti l’immaginazione e la ragione, l’impeto poetico e la gravità del giudizio, l’ardimento del novatore e l’oculatezza del critico, la facoltà di commuovere e la potenza del persuadere; anima profondamente affettuosa, egli era nello stesso tempo, maestro dell’ironia, ardente e concitato nelle passioni, è contemplatore freddo e imparziale nella storia, indagatore pertinace del passato e svisceratore paziente del presente; è infiammato di fede religiosa e rivoluzionario in tutti i campi del pensiero, è nobile di  nascita e democratico nel cuore, ha profonda cultura classica e scrive per il popolo.

In tutte le forme: epistole, inni, discorsi, tragedie, ha dichiarato guerra all’intrinseco, al convenzionale, al falso nell’arte. Ha risuscitato la poesia “tratta dall’intimo petto e dal cuor profondo “, la concordia del buon senso e dell’immaginazione, la prosa semplice e logica, l’amore e la ricerca ostinata del vero, la polemica coscienziosa e nobile.

Il Manzoni ebbe una sola certezza incrollabile e fondamentale nella sua vita: la fede che gli diede la serenità del sentimento ma non quella del pensiero e non impedì che la sua anima sentisse l’inestricabile sviluppo che l’avvolgeva, considerando vita, ogni spirito che pensa. La fede diede unità alla sua esistenza, alla sue opere, alle sue preoccupazioni; ma non impedì che sotto quella larga e limpida unità, si agitasse una complessità vasta e incerta.

Il Manzoni appare come un uomo che medita instancabile, con scrupoli infiniti, il molteplice spettacolo della vita e, nella contemplazione di questa varietà innumerevole, acquista un senso dell’oggettività che nessuno scrittore era riuscito a raggiungere.

 Elevato dalla fede e dall’ingegno indissolubilmente congiunti, smarrì, nella considerazione del prossimo, il senso superbo della propria personalità: intimamente investito dal sentimento della divinità dell’universo, si sentì sempre debole di fronte a questioni anche piccole che nascondono in sé una complessità di elementi che l’ingegno umano non può interamente afferrare. La sua fede morale lo guidò a vedere in tutto la mano di Dio e, quindi, in tutto un oggetto da rispettare, dinanzi al quale la mente umana può solo riflettere, non giudicare.

La complessa personalità manzoniana nasce da due, almeno in apparenza, contraddittorie concezioni della vita: quella illuministica e quella cristiana.

Dagli illuministi attingeva quelle idee di democrazia largamente intesa, di libertà e giustizia; quella critica spregiudicata degli schemi e delle strutture retrive, nella scienza e nelle lettere, nella politica e nel  costume; quella cordiale fiducia nella virtù benefica dei lumi intellettuali e, quindi, nella funzione educativa della letteratura.

La conversione del 1810 venne non come una crisi ma come un coronamento di questo patrimonio ideale. La ferma adesione ai principi cristiani non portava il poeta milanese… a rinnegare la sua convinzione dell’uguaglianza fra gli uomini, semmai a sottolineare il sentimento fortissimo della personalità umana, della dignità spirituale del singolo; non lo guidava la ragion di stato e l’assolutismo ma “la miserabil politica e l’inique ragione della spada ”. Il Manzoni cristiano rimase illuminista, democratico, umanitario.

Tutta la sua opera, sarà percorsa da questo lievito morale e umano, da questa sollecitudine costante per gli oppressi, per gli umili, per i loro sacrifici ignorati e disprezzati; dall’odio radicato nei confronti di quegli “eroici furfanti”, protagonisti della grande politica diplomatica; da una contenuta pietà per le generazioni più deboli, per tutte le loro lacrime che nessuno, nel corso dei secoli, ha mai consolato, per la sofferenza e le fatiche e il sangue di cui s’intesse la trama della storia, per i deboli che trepidano in silenzio. È una pietà che non accende sdegni, né fremiti di ribellione ma non è neppure, mai, sterile, perché un’ansia di giustizia la pervade.

  “La vita non è destinata a essere un peso per molti e una festa per alcuni, ma per tutti un impegno del quale ognuno renderà conto”.

Il mondo manzoniano è una contemplazione della miseria umana, laddove l’uomo trova valore solo in Dio: Napoleone non meno di Renzo Tramaglino. Il faticoso travaglio degli orgogli e delle ambizioni, degli amori e degli odi, sono contemplati o pietosamente o ironicamente, dall’unico porto quiete: “dove è silenzio e tenebre la gloria che passò”, nella bontà divina che “avvia pei  floridi sentier della speranza”.

Il Dio che “atterra e suscita, che affanna e che consola” è il vero motivo lirico di tutta l’arte manzoniana. In quella pietà, in quell’ansia di giustizia, Manzoni trova un punto d’incontro con le aspirazioni umanitarie e cristiane del suo secolo, così, anche la sua arte, acquista in solidità e in potenza persuasiva.

In apparenza il fattore umano sembra predominante ma in verità non predomina né l’elemento umano né quello divino, poiché quest’ultimo sostiene la storia illuminandola e sollevandola.

Tutti i personaggi delle sue creazioni religiose hanno una salda individualità umana: sono trasfigurati dalla sua fede ma serbano tuttavia il sentimento terreno in tutta la sua potenza.  È quel che avviene anche nei “Promessi Sposi” dove l’anima del Manzoni, una e molteplice, infonde nei personaggi, la propria religiosità conservando, al tempo stesso, le loro caratteristiche storiche e individuali. L’Innominato visse realmente come il romanzo narra e si convertì; il cardinale Borromeo, fu veramente, nel suo tempo, quel santo che il Manzoni dipinse: eppure dentro una così precisa fedeltà storica palpita l’anima del poeta che l’ha ritratta.

Napoleone non fu rappresentato da nessuno con la potente penetrazione storica del Manzoni; Ermengarda vive alla corte di Carlo e muore accomunata dal destino con gli Italiani nominati da suo padre, eppure Napoleone ed Ermengarda sono due personaggi molto legati alla loro sorte terrene e ultraterrena.

 Al contatto con la terra, con la sua vivida razionalità e storicità, la religione manzoniana si ravviva e prende forma: è questo il punto più originale del regno della sua fantasia.

Ed è proprio attraverso questo lungo percorso emotivo che nasce la poesia: “poesia che non è invenzione dei fatti, bensì indagine dei pensieri, dei sentimenti degli uomini che hanno agito”.

La poesia deve assolutamente tendere alla verità, anche quando è costretta ad inventare; il poeta deve essere scrupolosissimo nel ricostruire le passioni e i moti interiori che non può trovare testimoniati dalla storiografia. Dal momento che la storia ha tramandato solo i fatti essenziali, al poeta, al romanziere, sarà lecito “inventare” delle circostanze secondarie, necessarie per dar corpo all’azione drammatica, purché, queste, non contraddicano “i fatti conosciuti e più importanti dell’azione rappresentata”.

Il Manzoni era un grande creatore di caratteri e un gran descrittore di folle, poche strofe riassumono nel “Cinque Maggio” la vita e l’anima di Napoleone. Pochi lampi rivelatori dipingono il Bonaparte padrone del destino trepidamente assorto nei suoi superbi disegni di gloria, fremente nell’attesa del dominio, ruinante per l’Europa atterrita, sicuro e fulmineo, vinto, risorto, abbattuto, travolto dalle memorie, tratto a riva dalla mano pietosa di Dio: trionfatore, due secoli gli fanno da sfondo e lo innalzano come una statua gigantesca; vinto, l’immensità del silenzio e dell’oceano, concentrano su di lui, con più grave commozione, la nostra riverenza religiosa e stupita. I due secoli sono accennati in pochi versi, il silenzio e la solitudine in brevi parole: ma bastano a trasfigurare Napoleone, a conferire alla sua anima una grandezza vaga e a dare alla sua tragedia un significato universale. Pochi particolari bastano a far immaginare il resto; è come “una catena di monti di cui non si vedono che le vette scintillanti del cielo: l’ombra delle valli, i burroni, i boschi, le rupi, i sentieri scoscesi e tortuosi s’indovinano “.

Oh quante volte, al tacito morir di un giorno inerte”, con questi due brevi versi, Manzoni lascia immaginare l’isola sperduta nell’oceano, la malinconia di Napoleone solita di ogni tramonto e, soprattutto, nel silenzio delle cose, si avverte tutta l’anima abbattuta del grande condottiero.

Nelle liriche non c’è un vero esame psicologico: l’indole dei personaggi balza fuori dalla vita accennata nei suoi punti significativi grazie all’ambiente storico o a un accadimento materiale.

Quel che conta, dunque, non è tanto quel che Napoleone o, in seguito, Ermengarda, hanno fatto ma il loro rapporto con Dio. È Dio il taciuto ma supremo protagonista, è Lui che facendo grande Napoleone, ha voluto fornire agli uomini la misura della sua grandezza. Sia Napoleone che Ermengarda sono personaggi storici, entrambi hanno una colpa da farsi perdonare: Napoleone quella della superbia, Ermengarda quella ereditaria della “ rea progenie degli oppressori“; entrambi, però, purificati dalla sofferenza, sono degni di vera gloria, in quanto testimoni e strumenti del trionfo delle Fede.

Più si va addentro a scoprire il vero nel cuore dell’uomo, più si ritrova poesia vera”. Con questa semplice consapevolezza il Manzoni si avvicinava ad un genere che in se stesso rappresentava, l’apice della poesia, del sentimento, ovvero, il genere tragico. Anche per il Manzoni lo scopo della tragedia è quello dell’imitazione del verosimile, ma si tratta non di quello logico della poetica aristotelica, bensì di quello storico. Mentre lo storico deve basarsi su fatti documentati trascurando spesso gli elementi più salienti, l’artista mira al verosimile, accanto al dettato storico si serve, anche, dell’immaginazione per ricostruire gli aspetti omessi. L’alternativa manzoniana alla “tragédie classique” è un teatro nel quale la perfezione dell’arte si identifichi con la perfezione morale. Una tragedia con il fine dell’edificazione: strumento di perfezionamento in chi soffre, preparazione ai beni futuri della Provvidenza. La tragedia aderisce ai quattro culmini della meditazione morale e religiosa del Manzoni: “Dio, l’uomo, il peccato, la redenzione”.

L’introduzione del coro, inoltre, regola e corregge le interpretazioni dello spettatore e neutralizza nell’autore la tentazione di introdursi nell’azione e di prestare ai personaggi i suoi personali sentimenti.

La tragedia che più di ogni altra sintetizza le aspirazioni del “forte” poeta è sicuramente l’ “Adelchi”. Adelchi è un nobile di cuore che anela al bene e alla giustizia, desideroso di combattere e di sacrificarsi per questo ideale nella lotta generosa contro ogni forma di male. Ma a lui rimane precluso che la vita non è esclusivamente lotta del bene col male ma lotta d’interessi vitali nei quali ciascuno si trova direttamente impegnato. Grandi sono le speranze, grandi gli ideali ma Adelchi deve adempiere ai suoi doveri concreti, “obbedisce biasimando”, obbedisce col braccio non con l’anima.

 Nel suo animo è tristezza e desolazione e dolore per quel che fa e che pur si sente di dover fare ma che di continuo l’offende. Gli sembra assurdo che il Cielo possa aver dato la vita dei migliori all’arbitrio dei rei, prevale sempre in lui la disperazione: “La gloria? Il mio destino è di agognarla”,  “gran segreto è la vita e nol comprende che l’ora estrema”. E qual è il segreto che la morte gli svela? Che “una ferrea forza il mondo possiede e fa nomarsi dritto; la man degli avi insanguinata seminò l’ingiustizia e ormai la terra altra messa non dà”.

Adelchi è un’anima che soffre: “Soffri e sii grande” dice il suo amato scudiero Anfrido, soffri non già dell’impotenza della tua mente, della finezza del tuo sentire; in questa atroce sofferenza, l’animo cresce, si rafforza, assurge  grande.

Nello sfinimento riposante della morte, nel tedio o, meglio, nell’impossibilità di vivere dei tragici eroi manzoniani, si intravede una iniziale accettazione della legge del vivere: essi non si ribellano, non imprecano, scoprono semplicemente la necessità del dolore, la legge oscura del male di vivere e si distolgono da essa, in una sorta di stanchezza nella quale c’è, sì, l’impossibilità di accogliere la vita ma, altresì, l’impossibilità di mutarla.

C’è nella speranza infinita di una provvidenza operante, fuori o al termine della vita, il senso, l’urgenza, la ricerca e, infine, la certezza di un equilibrio cosmico.

Il cammino della fantasia manzoniane dalle tragedie al romanzo è proprio questo. Dalla rivelazione improvvisa alla comprensione luminosa, dallo smarrimento di fronte all’oscurità del vivere all’accettazione della sua legge.

Quando il Manzoni compone “I promessi sposi” sopra l’oscuro del mondo è piovuta ormai la luce della Provvidenza: il Carmagnola ha scoperto che si può essere buoni, leali, forti e perire nella viltà del tradimento; Adelchi, prima di morire, scopre il “segreto” della vita dove non resta che fare violenza o patirla ed Ermengarda, travolta da quella terribile legge di dolore, lei gentilissima ed innocente, è arrivata all’unica consolazione della morte e di Dio che è garante di ineffabili conforti.

La scoperta degli eroi tragici è la scoperta stessa della fantasia manzoniana: soffrire o far soffrire, ascendere o decadere, peccare o santificarsi, è questa la necessaria legge del mondo. L’oscuro non certo si purifica moralmente ma si illumina come mezzo indispensabile dell’attuarsi della vita.

È questo quel che si dice lo sguardo riposato, sicuro, cogitabondo sulla realtà, del Manzoni dei Promessi Sposi. La vita, il bene, l’amore non possono esistere senza il nulla, la morte, il male, il dolore. La conclusione di Lucia è l’apice della storia e la rivelazione dell’ispirazione manzoniana; Lucia nella sua ingenua grandezza afferma che “il vivere non può essere senza alternativa di bene e di male, di gioia e di dolore, di purezza e di peccato e che esso va accolto nella sua legge necessaria ed immutabile”.

 Dalle tragedie al romanzo, il vivere non è più l’ansia eroica del Carmagnola, l’anelito al bene di Adelchi, la gentilezza di Ermengarda, il passare in mezzo a un mondo che nega tutte le idealità me è l’esperimento stesso delle idealità. Vivere non è più la sterile attesa del morire ma l’accettazione della legge del mondo operando per il bene di tutti; così Adelchi nel romanzo si trasforma in Padre Cristoforo, nel Cardinale, nell’Innominato, in tutti quelli che esercitano una forza di bene con la coscienza della propria debolezza.

Siano creature innocenti e religiose come Lucia, siano creature aperte ai vizi umani come l’Innominato: essi muovono tutti da uno stesso sentimento del reale. Non c’è positivo o negativo, c’è la vita con le sue regole, c’è Dio che ha destinato agli uomini questa grande fatica; è Dio il segreto e la ragione della vita stessa.

I Promessi Sposi rappresentano la forma ultima a cui è giunto lo spirito del Manzoni, la sintesi della sua ignota esperienza, la sublimazione della sua vita nelle trasparenze dell’arte.

Il romanzo manzoniano rappresenta il respiro della fede, quella stessa fede che garantisce al poeta una calda armonia, una greve tranquillità, una calma contemplativa, una vena umoristica di fronte allo spettacolo della vita. L’umorismo del Manzoni è il frutto di una capacità singolare di sentire le stonature, le assurdità, le misere astuzie, le ipocrisie dello spirito, accompagnata da una pietosa e religiosa coscienza della fragilità dell’uomo.

Il Manzoni è sicuramente uno dei più grandi poeti, scrittori, romanzieri di tutti i tempi, con quel suo modo intrinseco di passare dall’ammirazione alla commozione, alla tenerezza e dalla tenerezza all’ammirazione; con quel suo modo di trattare i soggetti come se i più pesanti artifici fossero suggerimenti spontanei dell’ispirazione, con quell’arte di presentare la storia in modo da farla apparire più bella, senza nulla togliere alla verità e gettando luce su tutte le cose; con quella profonda conoscenza del cuore umano rivelato fin dei più reconditi precordi; con quella verità squisita nei concetti, nei dialoghi; con quell’essere sempre originale, senza stranezze, profondo e semplice, senza un luogo comune, senza un falso ornamento retorico. Queste profonde e intime sfumature dell’animo manzoniano, la sua coscienza e il suo ingegno, il suo coraggio e la sua umiltà, la sua prosa e la sua poesia, sono ancora oggi, come lo erano un secolo fa, oggetto di altissima e caldissima ammirazione.

Samantha Catalioti